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Quello che non so di lei. La coscienza è un racconto non sempre ben riuscito

quello-che-non-so-di-lei-locandinaDice un proverbio ebraico: «Dio creò l’uomo per sentirgli raccontare storie». Non si tratta di una suggestione isolata. L’idea della natura umana intesa essenzialmente come soggettività narrante è comune a tutte le culture, persino a quelle più marcatamente iconoclaste e diffidenti nei confronti delle rappresentazioni artistiche, come i popoli mediorientali, i quali hanno saputo però colmare il rifiuto delle immagini con l’elaborazione di una letteratura fiorente, dotata di interessanti soluzioni tecnico-narrative, come nel caso dei racconti de Le mille e una notte. Gli antichi Greci, dal canto loro, avevano addirittura associato il termine “persona” alla maschera di scena, sottolineando così la perfetta aderenza tra scrittura e coscienza, Tragedia e oracolo divino, e quindi anima. Raccontare storie, infatti, non è, come voleva Freud, un semplice conforto volto ad arginare l’angoscia e il disordine che si cela dietro il pensiero, bensì un sofisticato meccanismo della nostra struttura biologica, «una scorciatoia», per dirla con Daniel Dennett, «per aiutare i nostri cervelli, sempre a corto di tempo, ad organizzarsi e a ipotizzare ciò di cui bisogna preoccuparsi se si vuole sopravvivere». Si tratta di una trama illusoria, certo,  autoreferenziale, precaria proprio perché costantemente soggetta a oscillazioni e all’emersione di imprevedibili sottotracce, e tuttavia sufficientemente stabile da consentire all’individuo di immaginare scenari presenti e futuri, e percepirsi quale soggetto cosciente dotato di prerogative e dignità proprie. L’uomo, insomma, senza rendersene conto, è narratore e inventore di se stesso, e comincia a esistere solo nel momento in cui riesce a rappresentarsi all’interno del proprio teatro mentale cartesiano.
quello-che-non-so-di-lei-1In Quello che non so di lei, Roman Polanski tenta di rievocare proprio questo palcoscenico illusorio, accompagnando lo spettatore dietro le quinte della finzione, dove il flusso della coscienza e della creatività narrativa prende forma. La protagonista della storia non può essere dunque che una scrittrice, Delphine de Vigan (Emmanuelle Seigner), romanziera di fama internazionale alle prese con il momento più complicato della carriera di un creativo, quando al successo di pubblico e ai riconoscimenti della critica occorre dare un seguito convincente, e cresce l’esigenza di seguire nuovi stili e tematiche d’indagine. Durante la presentazione del suo ultimo bestseller, Delphine incontra Elle (Eva Green), una sensualissima e imperturbabile ghostwriter, la quale si offre di aiutarla a trovare l’ispirazione giusta per il libro che si sta apprestando a scrivere. Ciò che all’inizio appare una vantaggiosa e piacevole collaborazione, si trasforma presto in un’insopportabile e manipolatoria ingerenza.
La tematica, benché non nuova in Polanski, è certamente intrigante, e tuttavia bastano pochi minuti di buio in sala per accorgersi che qualcosa non funziona e presagire il cul-de-sac – è proprio il caso di dirlo – in cui la storia è destinata a quello-che-non-so-di-lei-3infilarsi. La struttura narrativa appare debole fin dall’incipit, e si conferma povera di originalità e di incisività nel corso del suo lento sviluppo, oltre che totalmente priva di quella tensione in grado di garantire una decorosa evoluzione drammatica; lo stesso vale per lo stile, relegato a un estetismo asettico ed essenziale alla Tom Ford, che non riesce però a innescare quell’effetto straniante che il regista aveva probabilmente in mente. Il tutto si risolve così in un gioco delle parti tra le due protagoniste fastidiosamente prevedibile, reso ancor più ordinario dall’interpretazione anonima di entrambe le attrici, a cominciare dalla Green, la cui bellezza gelida accostata al consueto ruolo di donna misteriosa e seducente comincia davvero a stancare. La si ammira scivolare sullo schermo con quella sua silhouette mozzafiato e quel viso etereo che tenta di deformarsi per sembrare la Rampling in versione sexy, ma questo non fa altro che sottolinearne la limitatezza attoriale e l’evidente difficoltà nel saper cambiare registro. La Seigner è certamente di un’altra argilla, e tuttavia non sembra trovarsi del tutto a suo agio in panni differenti da quelli della femme fatal cui siamo abituati vederla.
Quello che non so di lei mostra, dunque, un Roman Polanski in crisi di idee, ben lontano dal talentuoso artista indagatore della mente del passato: quel geniale visionario che sapeva turbare lo spettatore mettendo in scena le ambigue morbosità che sottendono l’ordinarietà delle relazioni e dei rapporti sentimentali; che con maestria esibiva le sottigliezze e gli effetti devastanti della manipolazione psichica, e che sapeva spingere la sua indagine ai confini della malattia mentale, fino a gettare lo sguardo nel baratro dell’incubo con tale sovraccarica enfasi da ammiccare quasi al genere horror, quello stesso horror di cui, peraltro, era riuscito anche a prendersi gioco, con garbato e pruriginoso parodiare.

Quello che non so di lei accenna sì a tutti questi aspetti, ma non ne approfondisce nemmeno uno: è un film che ha la pretesa di interrogarsi fino a dove possono spingersi, e se esistano davvero, i confini dell’Io; e tuttavia tali quesiti si dissolvono in una serie di cliché e di reminiscenze di film già visti a dir poco sconcertante, che di certo non ci aspetteremmo scaturire dalla medesima mente fertile che ha saputo partorite gioielli del calibro de Il coltello nell’acqua, Repulsion, L’inquilino del terzo piano, Tess e dello stesso Carnage. Non resta che sperare si sia trattato soltanto di un incidente di percorso e di potere presto tornare ad ammirare un’opera degna di un autore di prim’ordine, che abbiamo amato e continueremo ad amare.

Manuel Farina

Quello che non so di lei

Regia: Roman Polanski. Sceneggiatura: Olivier Assayas, Roman Polanski. Fotografia: Pawel Edelman. Montaggio: Margot Meynier. Musiche: Alexandre Desplat. Interpreti: Emmanuelle Seigner, Eva Green, Vincent Perez, Damien Bonnard, Dominique Pinon. Origine: Francia/Polonia, 2018. Durata: 110′.

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