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Rimini

L'ultimo (mezzo) film di Ulrich Seidl

Ho due ricordi legati a Rimini: il primo risale a una vacanza in famiglia nel 1982, il divertimento lontano da un mare per nulla attraente, alghe alle caviglie per decine di metri, il mio sguardo di undicenne rivolto verso le sale giochi, la mano nella tasca dei calzoncini pieni di monete da buttar via in un arcade luminoso, i corpi fulgidi delle cugine grandi che riscaldavano le anche prima della discoteca e aprivano l’immaginazione a divertimenti inaccessibili. Il secondo ricordo è la Rimini felliniana di Amarcord, vera come la memoria, fasulla come i sogni confezionati a Cinecittà: il liberty del Grand Hotel, la Fontana dei Quattro Cavalli, la ‘palata’ e il porticciolo, la sabbia e il sale, la stazione ferroviaria, spazi/oggetti che diventano il magma emotivo che vibra su pellicola perché l’occhio dello spettatore (e il mio, che il film lo vidi in vhs) guardasse Rimini come l’origine di tutte le mitologie.
Di fronte alla Rimini di Ulrich Seidl sapevo che avrei svoltato l’angolo per scivolare verso l’inverno, non perché fosse trapelato dopo la presentazione a Berlino qualcosa sulle atmosfere umide in cui è immerso il film, ma principalmente perché seguo il regista austriaco dai tempi di Canicola (Gran Premio della Giuria a Venezia nel 2001) e, dopo la trilogia Paradise e Safari, film realizzati negli ultimi dieci anni, c’era da aspettarsi una rappresentazione iconoclastica della città romagnola, irriconoscibile nei confini dello schermo cinematografico. Diciamo subito che al regista/sceneggiatore non interessa intaccare l’immaginario felliniano o i ricordi della riviera scintillante delle vacanze italiane. Rimini è un corpo narrativo in perfetta coerenza con il cinema di Seidl, popolato di personaggi dolenti, malati di solitudine e di una meccanica quanto ostinata freddezza di superficie, che diventa antidoto a un’esistenza deludente.

Il protagonista Richie Bravo (un superlativo Michael Thomas) è l’incarnazione di questa tipologia umana, con un pizzico di poesia in più che lo rende a tratti amabile. Parente prossimo del lottatore a fine corsa interpretato da Mickey Rourke in The Wrestler, Richie è un vecchia gloria del neomelodico austriaco (e sarebbe già sufficiente per pagare il biglietto del film). Aspetto trasandato, imbolsito, canottiera bianca sotto una pelliccia di foca e stivali da cowboy, sta percorrendo il suo viale del tramonto cantando in alberghetti di seconda fascia e arredamento démodé per un pubblico di anziani fans, soprattutto donne, che arrivano dall’Austria in pullman per godere degli ultimi fuochi di una leggenda della canzoncina d’amore e, perché no, sborsare qualche centone per passarci un paio d’ore di sesso. Un grigiume umano di cui Rimini, fosca e deserta, orfana del turismo estivo e popolata da qualche migrante in attesa di futuro, si fa specchio impietoso. In questo scenario il turning point che scuote l’esistenza paludosa di Richie è l’arrivo della figlia diciottenne Tessa, fuori dai radar da ben dodici anni e che adesso, accompagnata dal fidanzato siriano, chiede gli alimenti arretrati e forse, tra le righe, anche l’affetto paterno di cui è stata privata.

C’è una melanconia di fondo in questo Rimini, che probabilmente compare in maniera così marcata per la prima volta in un film di Seidl. La sensazione di trovarci di fronte a un perdente che procede per traiettorie centripete verso un destino incerto di sopravvivente, i cui fasti passati non sono che pallidi bagliori annacquati in un edonismo rovinoso, mortifero, e nei vizi: l’alcol, il gioco, il sesso. Seidl mette Richie Bravo in scena – sui palchi e all’interno dell’inquadratura – come fosse estraneo a se stesso, sdoppiato tra presente e passato, e per questo ogni esibizione diventa uno spettacolo surreale racchiuso in sale d’albergo spaventosamente anonime popolate da fantasmi, fotografate in una prospettiva centrale tanto precisa quanto alienante. Lo spettacolare Richie si deforma davanti a una molteplicità di (invisibili) superfici riflettenti sia durante i numeri canori che negli amplessi penosi e recitati, sempre e comunque alla ricerca di un eros eroso. Che Richie sia ormai ridotto ad essere un sosia del Bravo iconizzato su un vecchio manifesto incorniciato su una parete di casa, a tutti gli effetti doppelgänger, emerge definitivamente quando la figlia Tessa lo spoglia delle sue indispensabili menzogne.
Senza rinunciare al cinismo che permea i suoi film, Seidl, come si diceva, compie un autentico gioco di prestigio nella costruzione di un personaggio che dovrebbe essere respingente ma che invece seduce lo spettatore con la grazia di un bambino, o di un figlio buono e sbandato, disorientato dai suoi stessi limiti, un po’ kaurismakiano.
Per il pubblico italiano il meccanismo identificatorio potrebbe risultare più complicato, perché anche Rimini diventa una sosia oscena della Rimini turistica (potrebbe far parte della trilogia Paradise), un sogno degradato a incubo, decadente nei notturni, sfocata nel pulviscolo acquoso nei diurni, perché diventi un’ulteriore emanazione del protagonista, ma anche di tutta la dis-umanità debole e imbruttita che popola l’universo di Seidl.

In questo quadro antropologico, il regista lascia aperta una voragine nel racconto e (nemmeno tanto) nascosta nella cornice del film. Rimini si apre e si chiude con la figura del padre di Richie (Hans-Michael Rehberg alla sua ultima interpretazione prima di morire), letteralmente confinato in una casa di riposo che beffardamente presenta delle vie d’uscita decorate con immagini di finti esterni ma in realtà impossibili da aprire. Vediamo il vecchio uomo con deambulatore tentare di forzarle a inizio film, poco prima di ritrovarlo insieme a Richie e all’altro figlio in occasione del funerale della moglie appena scomparsa. E’ un filo narrativo che rimane sospeso, un incipit, già colmo di visioni illusorie e di trappole, che precede il ritorno di Richie a Rimini, ma che trattiene il potenziale di un’altra storia, quella con l’altro figlio e, forse, di relazioni infette con il padre, che vedremo alla fine cantare nostalgicamente canzoni naziste e invocare subito dopo, disperatamente, senilmente, la madre.
Per sciogliere le suggestioni dovremo aspettare Sparta, che in questi giorni Seidl presenta a San Sebastian, film girato con Rimini, e che con Rimini doveva fare corpo prima dello sdoppiamento in un dittico, dove protagonista sarà il fratello di Richie Bravo.

Alessandro Leone

Rimini

Regia: Ulrich Seidl. Sceneggiatura: Veronika Franz, Ulrich Seidl. Fotografia: Wolfgang Thaler. Montaggio: Monika Willi. Musiche: Fritz Ostermayer, Herwig Zamernik. Interpreti: Michael Thomas, Tessa Göttlicher, Hans-Michael Rehberg, Inge Maux, Claudia Martini, Georg Friedrich. Origine: Germania/Austria/Francia, 2022. Durata: 114′.

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