SlideshowVenezia 2021

SPECIALE E’ stata la mano di Dio

Da Venezia alla candidatura agli Oscar

Non è mai facile parlare di se stessi, della propria vita e di una grande tragedia capitata quando si era adolescenti. Paolo Sorrentino ci riesce solamente dopo vent’anni di carriera con il suo film più personale e il primo ambientato nella sua città, Napoli, dopo il film d’esordio L’uomo in più, che sorprese la critica proprio a Venezia nel 2001.
È stata la mano di Dio, in concorso alla Mostra cinematografica del cinema 2021, è la storia di un ragazzo nella Napoli degli anni ‘80. Il diciassettenne Fabietto Schisa è un ragazzo un po’ goffo che lotta per trovare il suo posto nel mondo, ma che trova gioia in una famiglia strampalata ed amante della vita, fino a quando alcuni eventi cambiano tutto. Uno è l’arrivo a Napoli di Maradona e l’altro è un drammatico incidente che farà toccare il fondo a Fabietto, indicandogli però la strada per il suo futuro. Apparentemente salvato da Maradona, toccato dal caso o dalla mano di Dio, Fabietto lotta con la natura del destino, la confusione della perdita e della volontà di essere vivo.

È stata la mano di Dio è la storia autobiografica di Paolo Sorrentino ma è anche il suo film meno sorrentiniano, più attento al racconto che agli estetismi a cui ci aveva abituato. Il regista napoletano ha il pregio di far navigare il film nei contrasti fra tragedia e commedia, amore e desiderio, finalmente con una messa in scena più semplice e sincera. Sorrentino non rinuncia però totalmente ai suoi vezzi più ricorrenti, ma l’esibizionismo tecnico è questa volta limitato e i deliri onirici sono quasi eliminati (a parte San Gennaro e il monacello), il dolore che si respira è davvero autentico. La macchina da presa finalmente compie un passo indietro per far parlare la vita dei personaggi, soprattutto quella di Fabietto, suo alter ego. Ne viene fuori Sorrentino come essere umano e non come sapiente movimentatore della macchina cinema.
Il discorso su Maradona è interessante e complesso, perché il regista decide quasi di annullare la potenza visiva e simbolica del Dio del calcio, non gira neanche una scena allo stadio, non c’è nulla di quell’arrivo vorticoso e non vediamo mai in azione Diego con la maglia del Napoli ma solo con quella dell’Argentina nei mondiali del 1986, quelli del famoso gol di mano all’Inghilterra (la mano di Dio che dà il titolo al film). Maradona è quasi un idolo spettrale che sembra sostenere la vita di tutti a Napoli, ma che nel film sostanzialmente si evoca senza vedere. Ci sono anche dei falsi storici un po’ stranianti: Maradona arriva a Napoli nel 1984 e lo scudetto viene vinto nel 1987, questi 3 anni vengono da Sorrentino volutamente ridotti in pochi mesi che lasciano un po’ perplessi non tanto dal punto di vista filologico ma più per quello simbolico, per quello che Maradona ha rappresentato per Napoli.

Il problema del film è una certa incoerenza tra la prima parte e la seconda: nella prima Sorrentino unisce il suo grottesco che trasfigura il reale con momenti da vera commedia, sembra un cinema allegro e giocoso che fa davvero molto ridere, forse più che in tutta la sua carriera; nella seconda parte invece ritorna un po’ il suo cinema meno efficace con quell’immaginario che discende da Fellini (ancora una volta preso ad esempio e citato nel film in una scena di un casting) come se la tragedia avesse fatto perdere a Sorrentino la sua forza di raccontare, al contrario di Fabietto che da lì trova il coraggio mai avuto per capire il suo percorso nella vita.
Il film sembra allora perdersi in innumerevoli finali anche abbastanza banali dal punto di vista registico.
L’impressione è che la tragedia lo ha spinto a fare cinema, lasciandosi dietro l’adolescenza, ripiegando perciò nel suo immaginario. Un passaggio sicuramente voluto, ma non per questo pienamente efficace, tanto che alla fine, forse, nel ricordare questo film avremo negli occhi quella prima parte dove si respirava vita vera.

Claudio Casazza

La mano incoerente del sentimento e della scrittura
Commentare Sorrentino mette sempre un po’ di difficoltà e imbarazzo: da un lato, non si può fare a meno di ammirare la grande capacità seduttiva del pluripremiato regista napoletano, la padronanza della macchina da presa, la capacità affabulatoria delle sue immagini patinate; dall’altro, lasciano disorientati la ridondanza dei piani sequenza, il ricorso reiterato alle atmosfere felliniane e certi contenuti intellettualoidi costruiti ad hoc, al preciso scopo di far riflettere sui mali della società contemporanea, ma che in realtà sono anch’essi spesso intrisi di retorica e di moralismo da salotto.
Personalmente, ho sempre trovato il gol di mano all’Inghilterra tutt’altro che un colpo di genio, e ancor meno un atto rivoluzionario, bensì un gesto di mera disonestà, sportiva e intellettuale, su cui ci sarebbe poco da fare poesia e che oggi, grazie a Dio, sarebbe stato cancellato dal VAR. La napoletanità, tuttavia, e la figura del Pibe de oro sono pregne di paradossi e contraddizioni, come pregno di paradossi e contraddizioni è il dolore umano, specie al cospetto della perdita di un parente stretto o, peggio ancora, di un genitore, figuriamoci di entrambi. Se nel primo aspetto, però, Sorrentino dimostra di saper ritrarre l’incoerenza del vivere con mirabile capacità stilistica e di scrittura, costruendo personaggi e frangenti la cui caricaturalità non scade mai, come è successo invece per altri lavori, nell’estetismo vacuo e nel citazionismo fine a se stesso, ma è messa, all’opposto, al servizio della più intima conoscenza dell’animo umano, nella seconda parte del film la struttura narrativa sembra vacillare, sfilacciarsi sempre di più, lasciando posto proprio a quell’autoreferenzialità della sofferenza che il regista Capuano (Ciro Capano) rimprovera a Salomè nella scena risolutiva del film, o che risolutiva dovrebbe essere se non si rivelasse invece un finto climax, una scintilla che innesca un disorientante groviglio di ritmi e banalità al limite della noia. Ed è proprio il dolore che annoia, che non crea un autentico coinvolgimento emotivo, il vero limite di quest’opera cinematografica, a tratti capolavoro, a tratti disorganico esercizio drammaturgico. Un vero peccato, perché in questa pellicola ci sono momenti davvero sublimi, in cui dialoghi e situazioni offrono un’immersione completa nel vortice dei sentimenti, tanto dei personaggi quanto di un’intera città, secondo un sapiente gioco di comicità e malinconia, lucidità e follia, edonismo e solitudine, figure grottesche e delicate.
Straordinario, come sempre, Tony Servillo, che in quest’occasione ha la capacità non comune di mettersi da parte, di “diminuire”, esaltando in tal modo, con la sua partecipazione delicata, alla stregua di un’assenza che esalta la presenza, la schiera variopinta di maschere, più o meno minori, più o meno maggiori, che lo circonda: a cominciare da zia Patrizia (una bravissima e bellissima Luisa Ranieri) e dalla signora Gentile (Dora Romano), ognuna, a modo suo, costretta a ingoiare il biasimo di una società deridente e conformista, e tuttavia capace di stare orgogliosamente svestita o esageratamente coperta nelle situazioni più sconvenienti. Il meno convincente sembra essere proprio il protagonista, Fabietto (Filippo Scotti), la cui inconsistenza fisiognomica e caratteriale finisce per affogare inevitabilmente nel marasma iridescente di nudi, mozzarelle sbrodolanti, personaggi sopra le righe, giocatori di calcio e pulsioni sessuali. Paradigmatico è, in tal senso, il modo in cui il giovane risponde al quesito che il fratello maggiore (Marlon Joubert) gli pone una sera, prima di dormire: «Se tu dovessi scegliere: Maradona al Napoli o una chiavata con zia Patrizia, che sceglieresti?». La replica «Maradona al Napoli» è lo specchio di un immaginario ancora infantile, di una fragilità costitutiva non ancora preparata a sconvolgimenti, soprattutto emotivi.
A una più attenta analisi, allora, pur lasciando molto perplessi, anche la seconda parte del film trova un’apparente giustificazione, un suo senso recondito. Dopotutto, cosa c’è di più destrutturante e banale della sofferenza umana, della perdita di un punto di riferimento affettivo importante? Non so se Sorrentino lo abbia fatto di proposito, certo è che È stata la mano di Dio mostra una sbalordente, fastidiosa spaccatura, troppo inspiegabile per far gridare al dilettantismo letterario.
«Non ti disunire», è il monito che il “padre” di Fabietto rivolge al figlio. Sorrentino si è certamente disunito. Forse Capuano ha torto: forse non c’è niente di più autoreferenziale e di stilisticamente incoerente del dolore; e nel dolore, anche la più inflazionata delle canzoni di Pino Daniele può diventare un’àncora di salvezza.
Manuel Farina

 

E’ stata la mano di Dio

Sceneggiatura e regia: Paolo Sorrentino. Fotografia: Daria D’Antonio. Montaggio: Cristiano Travaglioli. Interpreti: Filippo Scotti, Toni Servillo, Teresa Saponangelo, Luisa Ranieri, Renato Carpentieri, Massimiliano Gallo, Betti Pedrazzi, Ciro Capano, Enzo Decaro. Origine: Italia, 2021. Durata: 130′.

Topics
Vedi altro

Articoli correlati

Back to top button
Close