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SPECIALE Quo vadis, Aida?

1995, 9 luglio. Aida è un’interprete che affianca i caschi blu olandesi di stanza in una base ONU poco distante da Srebrenica. Migliaia di famiglie vi cercano rifugio dopo che l’esercito serbo ha messo a ferro e fuoco la cittadina. Purtroppo solo poche centinaia di persone trovano riparo entro i confini della base, che è poi poco più di un accampamento, tra queste non ci sono il marito di Aida e i suoi due figli. La donna trova il modo di farli entrare proponendo il coniuge in qualità di uno dei tre mediatori che accompagneranno i caschi blu in un meeting di facciata proposto dal generale serbo Mladić per negoziare un salvacondotto per le persone sfollate di Srebrenica. Tutti sanno che si tratta di una trappola e che il ritiro degli olandesi sarà solo l’inizio di una carneficina ordita dai serbi.

Con Quo vadis, Aida? la regista e sceneggiatrice Jasmila Zbanic torna dopo quindici anni da Il segreto di Esma, Orso d’Oro a Berlino nel 2006, sulla storia recente del suo paese. Questo è forse il suo progetto più sofferto, dal momento che – come racconta – non è stato facile ricostruire i giorni tragici del luglio 1995, quando le Nazioni Unite consegnarono di fatto migliaia di civili bosniaci alle milizie serbe uccidendo subito dopo tutti i maschi maggiori di dodici anni.
Per la regista non è stato semplice trovare appoggi tra i serbi (e lo si può comprendere), ma nemmeno far breccia tra i sopravvissuti bosniaci, cosa che farebbe pensare a un trauma collettivo ancora doloroso.

In uno scenario piuttosto aderente al vero, Zbanic cala Aida, personaggio inventato che diventa occhio interno e al tempo stesso sguardo emotivo, nel cuore della base ONU con un ruolo credibile e funzionale alla storia. Aida l’interprete diventa un elastico tra gli olandesi e i suoi concittadini, è persona informata dei fatti e dunque intuisce in anticipo quali saranno le conseguenze catastrofiche delle posizioni di attesa del contingente olandese. Il suo correre tra gli spazi della base in cerca di salvezza per i suoi familiari diventa simbolo di tutte le madri che perderanno i figli, delle mogli che rimarranno vedove. Il volto per nulla morbido di Jasna Djuricic, che interpreta Aida, inquadratura dopo inquadratura, è trasfigurato dal dolore crescente per una tragedia annunciata e che prende lentamente corpo, come fosse un’immagine sfocata poi sempre più visibile.
Aida fa da contrappunto alle donne e agli uomini che cercano rifugio, ai visi sfuggenti dei comandanti olandesi, a quelli impauriti dei giovani soldati. Il recinto della base ONU, che sembra un presidio di salvezza, diventa una demarcazione ridicola che non divide più i salvi dai condannati, il dentro e il fuori dalla morte certa. E’ proprio osservando il confine che Aida comprende quanto la trincea dei vivi non esista più, che salvarsi non dipenderà dalla protezione ormai nulla dei caschi blu. La comunità internazionale ha condannato quella gente e non esiste più un luogo in cui sopravvivere all’arrivo della bestia.

La regista presenta l’esercito serbo come una milizia di uomini senza umanità, fisicamente spaventosi, mossi dall’odio e dalla volontà di uccidere. Ratko Mladić è un boia scaltro che ha vinto la partita molto prima di arrivare al campo. Significativa la sequenza dei finti negoziati, dove la posizione dei partecipanti al tavolo già fa racconto, come le fiere posture dei serbi e i corpi dimessi degli olandesi. Tutto è deciso e tutti sanno, anche i tre rappresentanti bosniaci, tra i quali spicca per ingenuità solo il marito di Aida, che ancora spera nelle parole concilianti del generale Mladić, che davanti alla macchina da presa di un cineasta assicura una deportazione indolore.
Il film diventa un conto alla rovescia verso il massacro. A inizio film Zbanic aveva raccontato con la forza dei dettagli la catastrofe di Srebrenica: carrarmati nelle strade, grida fuori campo, colpi d’arma da fuoco, una donna morta nel suo cortile, un movimento di macchina lento, una pietanza che ancora cuoce in un forno in pietra: civili disarmati e sorpresi nelle loro attività quotidiane da un’incursione nella loro cittadina enclave che doveva essere protetta dall’ONU. La regista in poche inquadrature e senza inutili didascalie ci racconta l’attimo inaspettato dell’improvvisa incursione della morte.
Peccato che resti solo il rapido finale per guardare al dopo, agli anni che sono seguiti, con il lavoro dilaniante e incessante di scavo nelle fosse comuni per trovare, smembrati, i corpi di 8.372 vittime (accertate); per dare, a questi cittadini europei, un nome e un cognome.

Vera Mandusich

I giorni di Srebrenica

Il film che mancava nella parziale restituzione operata dal cinema del sanguinoso conflitto balcanico che ha bruciato negli anni ’90 la Jugoslavia, fino a cancellarla a favore delle attuali repubbliche riconosciute autonome. Se in tempo reale, nel 1994, Manchevski profetizzava in Prima della pioggia la tragedia di uno scontro fratricida che si sarebbe consumato tra vicini di casa, e quattro anni più tardi Paskaljevic trasformava Belgrado in una Polveriera pronta ad esplodere, nonostante la tronfia retorica dei vincitori sbandierata dal governo serbo guidato da Milošević, è nel 2001, nell’immediato dopo catastrofe, che la guerra serbo-bosniaca diventa cinema nella sua crudezza: Winterbottom con Welcome to Sarajevo la osserva attraverso la lente di una troupe televisiva britannica, mentre nel capolavoro No Man’s Land Tanovic descrive una metafora efficace di un paese prossimo a saltare in aria. In Sole alto, a distanza di quasi vent’anni Matanic pennella tre relazioni amorose in tre decenni diversi, e ai margini della grande storia, per guardare allo squallore delle macerie esteriori e interiori che il conflitto ha lasciato tra le strade e nelle anime.
Ma all’orrore di Srebrenica, il cinema non aveva ancora guardato con lucidità, forse perché vergogna e rimosso si fondono in un muro di silenzio ancora oggi. La regista e sceneggiatrice bosniaca ci ha messo anni per riuscire nell’impresa di portare su grande schermo i giorni tragici del luglio 1995, quando migliaia di abitanti della città enclave fuggirono verso la base ONU, presidiata dal contingente olandese dell’UNPROFOR, in cerca di riparo dopo l’occupazione della città da parte dell’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina guidate da Ratko Mladić.
Zbanic, che già nel 2006 aveva affrontato il tema doloroso delle donne stuprate dai četnici con Il segreto di Esma, si affida a una coproduzione complessa per aggiungere un tassello importante al quadro del conflitto. Senza essere un documentario, il film ripercorre gli eventi in maniera lineare, quasi didascalica in alcuni momenti, posizionandoci accanto alle vittime, senza indagare le ragioni politiche e ideologiche che precedono la presa di Srebrenica, tanto meno i motivi che hanno squagliato l’ONU in quei mesi terribili, mostrandone la pochezza.
Sono passati più di venticinque anni, e l’11 luglio nella civilizzata Europa non risuonano le trombe del ricordo dei caduti di Srebrenica, o perlomeno non risuonano come dovrebbero. Un genocidio in piena regola, più di ottomila musulmani fatti fuori con fredda follia mentre i vertici delle nazioni unite (il minuscolo è d’obbligo) se ne lavano le mani, lasciando soli i militari olandesi, codardi forse, impotenti di sicuro, nell’attesa di raid aerei sulle milizie di Mladić e sugli squadroni paramilitari come le truppe drogate dei četnici di Vojislav Šešelj, le famigerate “Tigri di Arkan” o gli “Scorpioni”, veri e propri criminali senza scrupoli, armati di Škorpion vz 61. Luca Leone, giornalista che ha dedicato diversi saggi alla guerra in Bosnia, in un libro che non dovrebbe mancare nelle nostre case Srebrenica, i giorni della vergogna, documenta con precisione ciò che accadde prima, durante e dopo l’assedio, dando spazio e voce a chi subì violenze ed è ancora in cerca di giustizia, nonostante Mladić e l’ideologo nelle retrovie Radovan Karadžić siano stati consegnati al Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia e condannati dopo anni di allegra latitanza e alte coperture (vergogna nella vergogna).

Jasmila Zbanic forse non ha la mano felice che esibì ne Il segreto di Esma; la materia è magmatica, direi esplosiva, ma i ritratti che fa dei protagonisti, al di là di Aida, cercano la verità e mai la facile commozione: dagli occhi del controverso colonnello Karremans a quelli del più giovane soldato del contingente (simboli di un fallimento che non ha trovato colpevoli) traspare il terrore generato dalla morte come possibilità in una terra straniera. E poi i visi trasfigurati dei civili che tanto ricordano i deportati nei campi. Ed è proprio quello il riferimento iconografico della regista: la base diventa un campo di smistamento in attesa dei treni verso lo sterminio organizzato, scientifico. Se possibile però, i soldati serbi e i paramilitari che le affiancano sembrano più famelici, bestie feroci dietro Mladić e il suo braccio destro, il comandante Radislav Kristić.

Ma questo conflitto, il più vicino a noi dal 1945 anche dal punto di vista geografico, il conflitto della porta accanto, lo ricordiamo veramente? Come si è depositato nel nostro immaginario, chiuso tra la Guerra del Golfo e l’11 settembre e poi schiacciato nella memoria (come tutto il nerissimo decennio che ha congedato il secolo breve e violento) proprio dall’attentato alle Twin Towers? Me lo chiedo perché la visione di Quo vadis, Aida? genera almeno due tipi di reazione (da esercente, ho la fortuna di confrontarmi con gli spettatori alla fine delle proiezioni): chi ricorda appena o non conosce i fatti arriva alla fine in un crescendo quasi insostenibile, nonostante le esecuzioni di massa restino fuori campo, come rimane ai margini ciò che è accaduto nei boschi a chi ha tentato la via della macchia, o gli stupri di gruppo e altre nefandezze (in tal senso il film “risparmia” sull’orrore); chi ricorda e conosce la storia, quindi conosce il finale, sente invece la ripugnanza delle immagini sin dal primo briefing, dopo pochi minuti di film, tra i vertici del contingente olandese e una rappresentanza bosniaca (Aida in testa): le rassicurazioni di Karremans su una copertura aerea risuonano macabre, non era stata forse dichiarata zona sicura la città di Srebrenica? L’ONU aveva già bucato la strategia mesi prima a Goražde, altra zona dichiarata protetta. Poco più avanti nel film risuona agghiacciante un ultimatum ai serbi che in realtà non viene trasmesso. L’atto finale, fingere di credere che gli autobus promessi dai serbi siano davvero comodi mezzi per spostare migliaia di persone verso città vicine, è l’ultima vigliaccheria verso civili che ormai si considerano spacciati.
Ecco, che si conosca la storia o meno, Quo vadis, Aida? sottopone a una sofferenza che i recenti racconti sulla Shoah non generano più, non come probabilmente riusciva Notte e nebbia di Resnais (1956). La vicinanza agli eventi conta e disorienta, perché Srebrenica è ancora vicina, la distruzione della Jugoslavia l’abbiamo vissuta, almeno chi è nato prima dell’80, davanti alla televisione, accompagnava i nostri pasti, come tutte le guerre che sono arrivate dopo, e solo al cinema sentiamo quanto a distanza di tempo sia indigeribile l’impotenza dello spettatore. E l’ignoranza, il non sapere, o il riscoprire in sala ci fa sentire come quei piccoli soldatini olandesi: colpevoli nostro malgrado, anche solo per aver dimenticato.

Alessandro Leone

Quo vadis, Aida?

Regia e sceneggiatura: Jasmila Zbanic. Fotografia: Christine A. Maier. Montaggio: Jaroslaw Kaminski. Musiche: Antoni Lazarkiewicz. Interpreti: Jasna Djuricic, Johan Heldenbergh, Raymond Thiry, Boris Isakovic, Joes Brauers, Teun Luijkx, Reinout Bussemaker, Ermin Sijamija. Origine: Bosnia-Erzegovina/Austria/Romania/Olanda, 2020. Durata: 101′.

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