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SPECIALE Triangle of Sadness

Dopo la sorpresa The Square del 2017 Ruben Östlund con Triangle of Sadness ha vinto ancora la Palma d’oro a Cannes, confermandosi un regista importantissimo e capace di fare un cinema che parla della società in cui vive, rischiando costantemente e spingendo al grottesco estremo i suoi film. Come già nei lavori precedenti, anche in quest’ultimo il regista svedese esplicita i suoi riferimenti, Buñuel e Ferreri su tutti, soprattutto in quella seconda parte che è semplicemente pazzesca.
Ma andiamo con ordine poiché Triangle of Sadness è un film che merita davvero un lungo approfondimento (avvertenza: ciò che segue contiene spoiler!). Si parte con un prologo strepitoso in cui un gruppo di modelli superfighi partecipa a un casting per una pubblicità, in questa scena Östlund inserisce un tormentone importantissimo per il senso del film: un giornalista di moda scherza con i modelli insistendo sulla differenza tra la faccia per H&M e una per Balenciaga, la prima è tutta sorridente, la seconda è invece incazzosa; per H&M bisogna essere amichevoli, mettersi alla pari con i poveracci che si possono permettere gli abiti a basso costo, la seconda deve essere altezzosa e superiore mentre si guardano gli stessi poveracci dall’alto al basso perché non si potranno mai permettere Balenciaga.
In questi primi dieci minuti il regista scandinavo ci spiega che il senso del film gira intorno al concetto di denaro e di bellezza, spiegando anche cosa sia il “triangolo della tristezza” da cui il titolo, ossia un leggero inestetismo in mezzo alla fronte che può produrre una ruga inaccettabile per un modello. Dopo questa prima parte il film si sposta su Carl (Harris Dickinson), uno dei modelli, e sulla sua relazione con Yaya (Charlbi Dean), fidanzata bellissima anche lei modella con più successo di lui. Tutta questa sequenza si sviluppa sul pagamento di un conto in un ristorante di lusso dove i due hanno mangiato. Pochi ma precisi dialoghi brillanti che raccontano una serata di coppia che ruota ancora una volta attorno al denaro e ai ruoli sociali.

Dopo questo primo avvicinamento ci spostiamo su una nave che ci porta al cuore del film, dove tutto esploderà tragicomicamente: Carl e Yaya sono invitati a partecipare a una crociera di lusso insieme a un bizzarro gruppo di nuovi ricchi. Tutto all’inizio sembra piacevole e i due si divertono condividendo su Instagram le fotografie del loro viaggio: un bagno in piscina, i piatti che mangiano. Yaya infatti è anche un’influencer e per questo la crociera è spesata dal tour operator. Il personale della nave è istruito per esaudire fino all’ultimo desiderio dei super ricchi che popolano la nave, tra loro c’è anche un oligarca russo che si autodefinisce “il re della merda” perché ha fatto fortuna grazie ai fertilizzanti chimici nell’Europa dell’Est. C’è anche una coppia di vecchietti molto distinti, dei simpatici produttori di mine antiuomo. Ancora soldi, sempre soldi, si passa da chi li guadagna nel modo più inutile a chi lo fa nel modo più ignobile, un’inquietante fotografia del capitalismo contemporaneo.
L’unico che sulla nave non si vede (quasi) mai è il capitano, un Woody Harrelson memorabile, che si rinchiude nella sua cabina ascoltando l’Internazionale per non vedere questi milionari che poco sopporta. La “cena con il capitano” è però un evento obbligatorio a cui non può sottrarsi, Östlund la filma durante una sorta di maremoto e realizza una delle sequenze più follemente divertenti del cinema degli ultimi anni: mentre la nave bascula anche la cena prende una piega non proprio prevista, si ride di gusto e in modo liberatorio con scene slapstick ai massimi livelli. Vedendo questa sequenza pensiamo ai Monty Python del Senso della vita o al famoso finale de La grande abbuffata di Ferreri, cinema di livello altissimo.
Fino al termine di questa seconda parte il film è davvero clamoroso, per certi versi Östlund poteva anche fermarsi qui poiché la terza parte è un po’ più didascalica: dopo un naufragio, alcuni passeggeri si troveranno su un’isola deserta, qui ruoli e classi sociali si ribalteranno. Probabilmente il regista svedese ha voluto chiudere troppo il cerchio e questa sezione non pare al livello delle due precedenti, sconta un po’ di prevedibilità se confrontata con il resto del film. Nonostante ciò ha una sua coerenza, poiché Triangle of Sadness  è di fatto un pamphlet politico, non solo una presa per i fondelli dei super ricchi o aspiranti tali, nemmeno un innocuo sberleffo del mondo del lusso e dei selfie; è proprio uno scontro frontale con il capitalismo. Östlund vuole mettere in discussione il nostro sistema economico e tutto quello che ne deriva, ci dice chiaramente che il mondo così com’è fa schifo, è arrivato a un livello di ingiustizia inammissibile. Su questo punto è esemplare lo scontro a furia di citazioni – che vanno da Lenin a Reagan – tra il capitano americano ma comunista e l’oligarca russo che è invece più capitalista di molti americani.

Östlund è uno dei pochi registi contemporanei interessato a un cinema marcatamente politico, un cinema che si faceva abitualmente negli anni ’60 e ’70, che sapeva smascherare ipocrisie e ridicolizzava senza problemi chi non meritava il minimo rispetto. Oggi è il momento di tornare a quel cinema, è finito il tempo della tolleranza verso questa società brutale in cui pochi uomini ingrassano alle spalle della maggior parte dell’umanità. Triangle of Sadness ci urla in faccia, a volte in modo sgradevole, che è ora di ribaltare il discorso, perciò sono benvenuti i registi come Östlund che non temono di esagerare per fare una chiarissima dichiarazione politica, è tornato il momento di ridicolizzare il potere capitalistico, proprio come facevano i grandi maestri, Don Luis Buñuel per primo e il nostro grande e mai dimenticato Marco Ferreri.

Claudio Casazza

Il fascino (in)discreto dell’aristocrazia

Capire le Palme d’oro significa seguire le peregrinazioni dei ragionamenti cinematografici, e quindi intuire, a volte anticipare, le tendenze della cultura generale e le metodologie di consumo della società.  Non è un caso che Ruben Östlund, come Haneke nel ristrettissimo ventaglio dei pluripremiati alla massima onorificenza, apra il suo film con una scena di moda omaggiante forse un misconosciuto Models (1999) di Ulrich Seidl. Costui, austriaco, ha d’altronde rivaleggiato per molto con Haneke pur appartenendo all’altro invidiato ventaglio, quello degli arcipotenti pluripremiati da lido veneziano. Haneke e Seidl, e in mezzo, a far da vertice e cateto giovanilistico tra i due maestri, il virgulto svedese Östlund, che come al solito gigioneggia in un caravanserraglio ben pianificato di mostri plastificati pronti per essere sparati in passerella. Triangle of Sadness muove i primi passi, deflagranti, nel mondo della moda, tra adoni dallo sguardo angelicato circonfusi da aureole di luminarie che proiettano la medesima ipnagogica frase: siamo tutti uguali. Salvo poi, compiaciuto e birichino, procedere con la auto-smentita da almanacco marcusiano: lui, irraggiungibile modello; lei, influencer dai molti followers (Charlbi Dean, tra l’altro morta poco prima della distribuzione del film) che al ristorante accende il battibecco degenere sul genere: c’è il conto da pagare, lei finge di non accorgersi e tergiversa perché il bellimbusto accorra a levarla dall’impiccio; l’altro non ci sta e la sfida per una volta a far di tasca sua. Ne segue scontro cosmico in salsa rosa che naturalmente finisce con la capitolazione del maschio.

Stacco di montaggio, cambio di scena, mutazione di prospettiva: dai toni soffusi dei grandi conglomerati urbani ci si sposta sullo yacht del fu Onassis, dove una masnada di riccastri appartenenti ai più variegati ceti anagrafici si dà appuntamento per una costosa crociera sui mari del sud. Ritroviamo la coppia di cui sopra; improbabili venditori di armi in pensione; un oligarca russo che ha fatto i soldi vendendo fertilizzanti (“Sono il re della merda” si presenta festoso); una tizia semiparalizzata per un ictus che comunica ripetendo sempre e soltanto, fino allo sfinimento, la solita assordante frase in tedesco; venditori, uomini d’affari, vecchi aristocratici inamidati dalle buffe pretese, giovani social media manager immersi fino alle pudende in scatti fotografici instagrammabili. Il capitano è sempre ubriaco, durante una cena arriva la tempesta e succede il finimondo…

Triangle of Sadness è come una intricatissima pianta di rimandi, intersezioni, congiunture furbette che mescolano quanto appreso e che puntualmente si inaspriscono di nuove volgarissime sfumature: sembra di lambire la lotta di classe, certo onnipresente con la rigida suddivisione tra i ricchi da pontile e gli immigrati asiatici e variamente colorati nei budelli della nave; ma poi si va oltre, si tonfa meravigliosamente nel femminismo più reazionario, si torna al neocapitalismo, una stoccata ai liberisti post-sovietici, un occhiolino ai socialisti nostalgici d’un tempo, e di nuovo all’arrembaggio picaresco in una nave-mondo dove si celebra il crepuscolo di un Occidente grottesco e autoreferenziale. Difficile accusare Östlund di compiacimento involontario, o di pur evidente pornografia degli eccessi, perché già in tempi non sospetti rifletteva sul ruolo delle immagini e dell’autorappresentazione dei gruppi sociali nel suo Involuntary (2008). In The Square il suo occhio vivisezionava l’universo dell’arte contemporanea, e le sue rampanti strategie di vendita e comunicazione, in Triangle aggiungiamo un gradino alle sue personalissime ma universali speculazioni sull’essere umano. Non basterebbe un saggio per sviscerare tutti i riferimenti che questo abile regista ci regala, palesi o inchiavardati tra le cose, squadernati accademicamente o in epidermica filigrana: da Saramago a James Ballard (Il Condominio, ovvio, ma anche e soprattutto Il paradiso del diavolo), dal racconto filosofico alla pura e onanistica ricerca estetica, dal volo pindarico nel bello all’esaltazione escrementizia dell’inverecondo fino a sfiorare il cinema che cita il cinema (quello del conterraneo Roy Andersson, o persino Marco Ferreri). E senza scendere nel dettaglio per evitare spoiler inopportuni, come non accorgersi del dialogo tra i massimi sistemi politici e filosofici che l’oligarca russo intrattiene con l’alcolizzato capitano durante una notte di alcolica tregenda? L’uno, nato comunista ma convertitosi alle ricchezze del libero mercato, tenta di impossessarsi del timone; l’altro, socialista disamorato che guida l’imbarcazione per inerzia, tenta più o meno inutilmente di respingerne gli attacchi. Sono due visioni del mondo che si scontrano, titanicamente, su una nave dei folli destinata a… già, a cosa? Forse a schiantarsi, forse a viaggiare senza capitano né timone, in balia delle tempeste, forse invece a richiedere e pretendere una rivoluzione dei costumi, della morale, dell’economia, pur di tornare a essere nave: bella, regale, rispettata come Onassis l’aveva voluta.

Marco Marchetti

Triangle of Sadness

Regia e sceneggiatura: Ruben Östlund. Fotografia: Fredrik Wenzel. Montaggio: Mikel Cee Karlsson, Ruben Östlund. Interpreti: Harris Dickinson, Charlbi Dean, Woody Harrelson, Zlatko Buric, Oliver Ford Davies, Iris Berben, Hanna Oldenburg, Arvin Kananian. Origine: Svezia/GB/USA/Francia, 2022. Durata:149′.

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