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The Social Dilemma

Ordinate un paio di scarpe su Amazon, cercate uno spremiagrumi su eBay, prenotate su Booking una camera a Barcellona, semplicemente googolate il nome di una rock band, prestissimo, ovunque navighiate, si accenderà un banner che vi proporrà calzascarpe centrifughe visite alla Casa Balto di Gaudì abbonamenti a Spotify. La formula è magica: “Forse potrebbe interessarti anche…”. Se fino a poco tempo fa infastidiva la risposta non richiesta a un bisogno già probabilmente soddisfatto, adesso i consigli di navigazione sono come sconosciuti in cui inciampi in un mercato rionale dell’ortofrutta il sabato mattina, perlomeno fino a quando qualcosa di familiare non ti intercetta. E alla lunga qualcosa ci intercetta sempre, magari in un momento di bassa vigilanza. Non dovrebbe neppure far scalpore l’esistenza di un’intelligenza artificiale che modella dati e sforna rotte nuove di navigazione, dopo aver esaminato traiettorie e virate nell’oceano del web di milioni di utenti. Nemmeno mia nonna è più sorpresa di trovarsi l’ultimo libro di Vespa prima di aprire il suo indirizzo di posta dopo aver digitato per due volte la parola “porta” nella stessa frase. Va così. E non si tratta di Grande Fratello, o perlomeno non come lo aveva immaginato Orwell, dove la presenza oscura e dittatoriale definiva un apice contrapposto a una base pecorona allevata a una libertà ebete.

The Social Dilemma affronta il tema del controllo sulle masse attraverso quel bene preziosissimo e venduto a peso d’oro che sono i big-data, poi processati e utilizzati proprio per alimentare la sofisticata A.I. che ci propone consigli per gli acquisti, video, brani musicali, ma anche amicizie sui social network, profilando ogni utente a seconda delle scelte di navigazione o dei click sui suggerimenti di navigazione. Se, ancora mia nonna, fino a qualche tempo fa pensava al controllo di una specie di orecchio informatico a cui interessava la sua vita e quelle di altri milioni di individui, come ci fosse una Super Stasi in ascolto perpetuo, adesso il problema pare non porsi più, avendo accettato che un algoritmo – c’è sempre un algoritmo – serve delle aziende connesse ad altre aziende connesse ad altre aziende che sui nostri dati fanno profitto. Perché i dati vengono venduti a caro prezzo, perché producono interpretazioni di mercato sulla base dei comportamenti, perché moltiplicano i bacini di consumatori, finalizzando dunque la produzione delle merci e la loro visibilità per creare altre tipologie di consumatori (semplificando).

Il regista Jeff Orlowski gira il suo documentario partendo da una tesi senza antitesi e cercando una sintesi tra le diverse voci che ne formano il tessuto per far emergere ciò che tutto sommato già abbiamo intuito da tempo: ovvero che ci sono meccanismi esoterici che inducono i possessori di smartphone a trascorrere sempre più tempo con il proprio device, una specie di dipendenza che sta modificando le nostre abitudini e il significato di socialità. Ergo, passare più tempo con il proprio dispositivo mobile significa anche moltiplicare le occasioni in cui siamo intercettati da messaggi pubblicitari.
Se la Tv commerciale trasformò definitivamente negli anni 80 la programmazione televisiva in contenitori per la pubblicità, tutte le attività che svolgiamo giornalmente sullo smartphone contengono ormai parentesi che chiudono annunci e indirizzamenti. A raccontarcelo sono le voci di chi ha fatto parte dei team che hanno creato social network come Facebook, Instagram, Pinterest, di aziende come Google e Apple. Tristan Harris, ad esempio, è stato tra gli inventori della casella di posta elettronica di Google e ha lasciato l’azienda quando si è reso conto che l’uso della tecnologia andava in direzione opposta all’etica del rispetto della privacy. Con Aza Raskin, tra gli sviluppatori di Firefox, anche lui intervistato da Orlowski, Harris ha più volte messo in guardia dai pericoli connessi alle nuove tecnologie. Le loro riflessioni si intrecciano a quelle di altri esperti e saggisti, come Jaron Lanier, informatico tra i primi ad usare la locuzione Virtual Reality, o la scrittrice Shoshana Zuboff che avvicina i concetti di rivoluzione digitale ed evoluzione del capitalismo. Quando Lanier afferma che per le aziende i nostri comportamenti sono interessanti nella misura in cui possono essere modificati, porta inevitabilmente verso inquietanti scenari che investano società, economia e politica. Il populismo crescente soprattutto in occidente trova nella velocità dei social un veicolo potentissimo, confondendo spesso l’informazione con tutto ciò che è fake, creando a volte movimenti di pensiero pericolosi e capaci di muovere le masse attraverso semplificazioni demagogiche.

The Social Dilemma stratifica così i pericoli legati all’eccessiva presenza dei cellulari nelle nostre vite, contrappuntando le illuminanti testimonianze degli esperti con una fiction familiare che serve a didascalia degli orrori, laddove ci viene proposta una normale famiglia americana alle prese con figli adolescenti o preadolescenti dipendenti da smartphone, letteralmente manovrati a distanza da una specie di centrale di controllo (modello Inside Out) che invia contenuti da navigare per indurre comportamenti e poterne anticipare altri. A dire il vero è la parte meno convincente del film, non dico inutile, vista la mission di una scrittura filmica che cerca l’identificazione di genitori e soprattutto figli, a cui, infine, vengono dispensati una serie di consigli per difendersi dalle induzioni e per riappropriarsi del proprio tempo.
Presentato al Sundance nel 2020, il film è disponibile su Netflix.

Alessandro Leone

The Social Dilemma

Regia: Jeff Orlowski. Sceneggiatura: Davis Coombe, Vickie Curtis, Jeff Orlowski. Distribuzione: Netflix. Origine: USA, 2020. Durata: 94′.

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