Romeo Aldea (Adrian Titieni) è un medico affermato. La sua vita si trascina flemmatica tra l’ospedale in cui lavora e il modesto appartamento di un condominio popolare dove vive insieme alla moglie Magda (Lia Bugnar), donna che non ama e che tradisce da tempo, e alla figlia Eliza (Maria-Victoria Dragus), verso la quale nutre un attaccamento iperprotettivo. Da buon genitore, vorrebbe per Eliza ciò che a lui è stato negato, al punto da averle programmato il futuro nei dettagli. Eliza oltretutto ha da poco vinto una borsa di studio per un’importante università inglese, e Romeo vuole che la giovane non si lasci scappare l’occasione di andarsene dalla Romania. Occorre soltanto che Eliza si diplomi alla maturità con un “nove”, cosa che pare abbastanza scontata visto l’ottimo rendimento ottenuto durante il triennio scolastico. Il giorno prima dell’esame, però, la giovane è vittima di un tentativo di stupro, nel corso del quale si sloga il polso della mano destra. La fasciatura ingombrante e il dolore al braccio non le consentono, la mattina seguente, di terminare il compito di letteratura. Si prospetta quindi un voto non all’altezza delle aspettative. A questo punto, il dottor Aldea mobilita le proprie conoscenze, garantendosi in breve tempo una raccomandazione che consentirà alla figlia di risollevare la media nelle prove successive. Eliza non dovrà far altro che rendere riconoscibile il compito di matematica, così da permettere all’uomo di fiducia presente all’interno della commissione d’esame di truccare l’esito dell’esercizio.
Da Film blu a Sister, da L’Enfant al più recente Rabbit Hole, passando per La stanza del figlio e, perché no, dallo stesso 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, la tematica della genitorialità è stata affrontata e sviscerata in molti dei suoi aspetti più controversi – il dolore dell’assenza, l’incapacità di accettare il tremendo manifestarsi degli eventi, il peso della responsabilità, la disarmante incomunicabilità insita nel divario generazionale… – In Un padre, una figlia, premio per la migliore regia al Festival di Cannes 2016, Cristian Mungiu non si discosta da questa impostazione, e tuttavia aggiunge un ingrediente fondamentale che contribuisce a dare ampio respiro a un argomento spesso abusato e francamente un po’ logoro.
Con lo sguardo crudo e compassionevole che lo contraddistingue, il regista rumeno trasforma l’ordinarietà del rapporto interpersonale in un dramma morale, facendo immergere lo spettatore nello squallore pigro della vita di provincia, in cui gli odori stantii di umidità trasudanti dai mobili e dalle tappezzerie di second’ordine, gli olezzi di cibo riscaldato esalanti dai fornelli unti, i vapori di ossido di carbonio riversati dai tubi di scappamento, il disordine di intonaci e laterizi sparsi sui marciapiedi polverosi, sembrano riflettersi nell’emotività anestetizzata delle relazioni umane, restituendo uno spaccato di conturbante disincanto e desolazione. In questa atmosfera pesante, la vita dell’individuo si riduce a un’ostinata, pianificata ricerca della felicità altrui, la cui realizzazione appare continuamente disturbata da fastidiose vibrazioni di smartphone in modalità silenziosa, che distolgono l’individuo dalle proprie priorità, quasi a ricordargli la condizione di piccolo ingranaggio inserito in un vasto meccanismo di reciproche dipendenze. Avvisi di chiamata che talvolta destano dal torpore quotidiano con la violenza di un sasso scagliato sul parabrezza di un’auto o contro il vetro di una finestra ridestando l’uomo dal proprio sogno prometeico. Ed è qui che la maestria di Mungiu raggiunge il suo apice: i vincoli ai quali l’essere umano è sottoposto non sono semplicemente il risultato di un’imposizione esterna o dall’alto, ma sono il più delle volte l’esito di quelle stesse strategie adottate per conseguirne l’emancipazione. Per truccare l’esame di Eliza, infatti, Romeo è costretto a costruire nuove reti clientelari, nuovi legami, nuovi assoggettamenti, ingarbugliando ulteriormente il sistema di mutui favori che intossica il vivere sociale.
Ma Un padre, una figlia è soprattutto un film sulla perdita dell’innocenza, quell’innocenza che, come direbbe san Paolo, «non è visibile nella carne», ma nello spirito, la sola che un padre avrebbe il dovere di salvaguardare, ma che il più delle volte subordina a convenienze private, facendo dell’educazione un pasticcio incoerente di frasi edificanti e cattivi esempi. Se da un lato, infatti, Romeo si rammarica per la perdita della verginità sessuale di Eliza, dall’altro trova giustificabile che ella baratti la purezza dell’onestà che lui stesso le ha insegnato in nome di un “futuro sicuro” che la giovane non ha nemmeno chiesto. «A volte l’unica cosa che conta è il risultato», giunge a dirle per convincerla a trasgredire, come se si potesse davvero mettere da parte per un momento l’onore e conservare intatto lo sguardo ingenuo della giovinezza. Ciò che lo stupratore non è riuscito a compiere, è riproposto ora in una nuova forma, non meno dolorosa e spersonalizzante. Il troppo amore riesce a fare anche questo.
Manuel Farina
Un padre, una figlia
Sceneggiatura e regia: Cristian Mungiu. Fotografia: Tudor Vladimir Panduru. Montaggio: Mircea Olteanu. Interpreti: Adrian Titieni, Maria Dragus, Lia Bugnar, Malina Malovici, Vlad Ivanov, Gelu Colceag, Adrian Vancica, Liliana Mocanu. Origine: Romania/Francia/Belgio, 2016. Durata: 128‘.