Le guerre tirano fuori il peggio degli uomini. O forse no, almeno non sempre. Il 2 maggio 1968 il berretto verde Roy Benavidez, così come ci viene raccontato da Joanna Bourke ne Le seduzioni della guerra, si lanciava sul campo di battaglia vietnamita facendosi riempire di proiettili come una groviera svizzera: buca di qui, buca di là, il nostro eroe veniva trapassato cinque volte a colpi di shrapnel e trafitto a baionettate sulla testa ma, nonostante l’emorragia, le ferite, il dolore lancinante, ebbe la forza fisica e morale di recuperare dei compagni feriti, bruciare documenti segreti e gettarsi sull’elicottero americano. Benavidez era già stato imbustato dal personale medico in un sacco da obitorio, ma poco prima che la cerniera venisse chiusa sulla sua salma, il giovane spalancò gli occhi e sputò in faccia al dottore che l’aveva appena dato per spacciato. E che dire di John McCain, il rivale di Obama? Sopravvissuto all’abbattimento del suo aereo, il 26 ottobre 1967, una gamba e le braccia spezzate, l’uomo rischiò di annegare nelle acque di Hanoi, fu quasi linciato da una folla inferocita, che gli ruppe una spalla e lo massacrò a colpi di baionetta, infine fu detenuto per cinque anni e mezzo in un carcere vietnamita, dove subì violenze, torture e soprusi, rifiutando più volte la liberazione se prima non fossero stati rilasciati tutti gli altri prigionieri. Sono soltanto due delle numerose storie (pazzesche, eroiche, incredibili) di fronte alle quali chiunque si sentirebbe piccolo piccolo. Persino la Boldrini, Vendola e quelli che non toccherebbero un’arma nemmeno se vi fossero costretti. E l’aspetto più curioso è che tutto ciò non riguarda soltanto il poco glorioso passato americano nella penisola indocinese, bensì l’attualità delle recenti guerre mediorientali: anche l’Afghanistan ha avuto i suoi eroi, per esempio Marcus Luttrell, decorato, proprio come il summenzionato Benavidez, con il Purple Heart dall’esercito americano.
Luttrell è davvero un lone survivor, un unico sopravvissuto alla sua squadra di giovani e giovanissimi soldati che nel giugno 2005, nell’ambito dell’operazione Red Wings, caddero vittime di un’imboscata per essere assassinati senza pietà dai guerriglieri talebani. Questo è il film che ne è stato tratto, ispirato al romanzo autobiografico dello stesso Luttrell, e diretto da Peter Berg (The Kingdom, 2007; Battleship, 2012) con una pletora di grandi attori al suo seguito: Mark Wahlberg (Luttrell), Taylor Kitsch (Michael Mike Murphy), Emile Hirsch (Danny Dietz), Ben Foster (Matt Axe Axelson), Eric Bana (Erik Kristensen) e Alexander Ludwig (Shane Patton). Lone Survivor non cade nella trappola del facile patriottismo (anche se le commoventi immagini di chiusura, fotografie di famiglia dei veri caduti sul campo, per un istante lasciano presupporre il contrario), e si conferma come un film non di guerra, ma sulla guerra. Sulle grandi, nobili azioni che pure in situazioni di altissima tensione fisica ed emotiva, gli esseri umani non mancano di dispensare. Come il momento in cui i militari, sorpresi del tutto casualmente da una famiglia di pastori durante un cruciale appostamento, si dividono sulla sorte da assegnare ai malcapitati: prima discutono sull’opportunità di uccidere i civili per evitare che rivelino al comando talebano la loro posizione, quindi riflettono sull’eventualità di abbandonarli legati in mezzo alla foresta, facili vittime di lupi e animali, e finiscono col convincersi a lasciarli andare. Anche a costo delle fatali conseguenze che da questo gesto deriverebbero.
La macchina da presa di Berg è leggerissima e onnipresente, a tratti galleggia tra i corpi dilaniati dai proiettili, sui loro volti sanguinolenti e scavati dalla fatica, sporchi di terra, pietre e pulviscoli. È un approccio minimalista, quello scelto dall’abile regista, con stacchi di montaggio (assemblati da Colby Parker Jr.) precisi come pallottole, movimenti sinuosi ma diretti allo stomaco, continui rovesciamenti di prospettiva che fanno da contrappunto alle esplosioni e alle cadute. E in questo sta il punto di forza di Lone Survivor: la grazia brutale dei suoi accostamenti, le rocce su cui si fracassano gli arti questi soldati, costretti dall’avanzata nemica a lanciarsi dalle rupi pur di scampare alle mitragliate, il boato delle granate e l’ospitalità, generosa e sorprendentemente disinteressata, di un piccolo villaggio pashtun, che permetterà a Luttrell di evitare la decapitazione. E non dimentichiamoci la splendida fotografia curata da Tobias A. Schliessler (già collaboratore di Berg), capace di racchiudere la luce con la stessa bravura di un pittore precisionista, e veicolarla sul grande schermo per raffigurare un paesaggio afghano decisamente insolito, pieno di sfumature, rocce e montagne e boschi profumati. Insomma, l’esatto opposto di come ce lo hanno comunicato tutte le televisioni, troppo impegnate a rappresentare il Medio Oriente come una spaziosa, vuota scatola di sabbia per concentrarsi sulle bellezze della natura. Con le sue due nomination agli Oscar (miglior sonoro e miglior montaggio sonoro, appunto), la pellicola di Peter Berg si dimostra un grande spaccato di quotidianità bellica, lontano dall’epica di Spielberg (per fortuna), e vicinissima alla realtà dei sentimenti, alla crudeltà delle armi e soprattutto alla pietà che, in pace come in guerra, ancora anima il cuore dell’uomo.
Marco Marchetti
Lone Survivor
Regia: Peter Berg. Sceneggiatura: Peter Berg. Fotografia: Tobias A. Schliessler. Montaggio: Colby Parker Jr. Musica: Explosions in the Sky, Steve Jablonsky. Interpreti: Mark Wahlberg, Taylor Kitsch, Emile Hirsch, Ben Foster, Eric Bana, Alexander Ludwig. Origine: USA, 2013. Durata: 121′.