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Addio Philip Seymour Hoffman

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Inter feces et urinam nascimur. Era proprio con questa citazione attribuita a Sant’Agostino, anche se più verosimilmente derivata da un’omelia di Bernardo di Chiaravalle, che si apriva un mio (non troppo) vecchio necrologio pubblicato su Nocturno 2009: oggetto delle funebri attenzioni la giovanissima Brittany Murphy, trovata morta nella vasca da bagno, si diceva per una presunta overdose di farmaci, in realtà uccisa (proprio come il marito, spirato appena cinque mesi dopo nella stessa casa) da una terribile muffa killer. Non sono passati nemmeno quattro anni ed ecco che la storia si ripete, soltanto che in questo caso a morire nella stanza più segreta del proprio appartamento non è stata un’attrice ancora abbastanza acerba, di sicuro brava ma misconosciuta al grande pubblico, ma… già, come definirlo?phil 5

Philip Seymour Hoffman non era un uomo, né un talento, né un attore. E nemmeno un premio Oscar, che proprio in queste ore sta diventando l’etichetta preferita dai giornalisti. Sarebbe offensivo ridurlo a una parola, conchiuderlo nella semplicità risolutrice di una frase, ingabbiarlo nella comodità di una definizione. No, lui sussumeva a un nebuloso concetto olistico, che non era quello della predisposizione al mestiere, e neanche la bravura e la dedizione nel realizzarlo; Hoffman rappresentava la camaleontica capacità di divenire il personaggio chiamato a impersonare, di essere la maschera che altri avrebbero soltanto calzato. C’erano gli attori, accanto a lui, sul palcoscenico, i tecnici, i registi. Lui non rientrava in nessuna categoria, perché era il Divo. Chi ama Hoffman, chi conosce il suo cinema, sa di cosa si sta parlando. Sarebbe inutile spendere tante parole sulla sua carriera (basterebbe fare tappa su Wikipedia per dissipare ogni dubbio o acquisire tutte le delucidazioni del caso), come sarebbe superfluo ripetere che, nonostante il suo amore viscerale per la droga, i chili di troppo, un fisico non proprio “da star”, era comunque il migliore fra tantissimi. Guardatevi Magnolia (1999) di Paul Thomas Anderson, oppure Onora il padre e la madre (2007) di Sidney Lumet, o l’oggi ingiustamente dimenticato Happiness (1998) di Todd Solondz. Siamo dalle parti di Robert De Niro, Al Pacino e gli altri maestri della pellicola, non ci sono cazzi che reggano.

phil 3Eppure Philip Seymour Hoffman non c’è più, non è più tra noi, ha scelto la pillola rossa ed è partito per un viaggio sulla luna, proprio come prima di lui Judy Garland e Lupe Veléz, entrambe morte di overdose, entrambe morte nel riservato anonimato di una stanza da bagno. È difficile capire come siano andate le cose, ma stando alle notizie appena diramate dalla stampa, più che di una pillola, per Hoffman, sembra si sia trattato dell’incontro tremendo con una siringa. Ancora oscillante nella sua vena assetata quando l’uomo è stato rinvenuto presso la sua residenza nel Greenwich Village, a Manhattan. Di nuovo l’eroina, proprio lei, la bastarda che l’aveva costretto più di una volta, sin dagli esordi sul palcoscenico, a periodi di disintossicazione in cliniche e centri riabilitativi. Sembrava che tutto fosse sotto controllo, che tutto fosse tornato alla normalità, ma certa gente ce l’ha nel sangue: e non stiamo parlando di vizio, di trasgressione, o di altre cosucce da moralisti. E nemmeno della fama che sovente porta una persona di successo a scavarsi la fossa con le proprie mani; semmai della fame, la voracità, il desiderio irrefrenabile di spingersi oltre i limiti, di provare qualcosa che nessun coronamento di un sogno, il successo, i soldi e le donne, possono concederti. Neppure l’Oscar al miglior attore vinto nel 2005 per l’interpretazione di Truman Capote – A sangue freddo era riuscito a distoglierlo dalla sua voce di sirena, dalle promesse di delizia degne di un’allucinatoria Lorelei. Né quello, né il Tony Award come miglior attore da palcoscenico nel 2000, né il BAFTA, né ancora le numerose altre candidature all’Oscar come miglior attore non protagonista per La guerra di Charlie Wilson (2007), Il dubbio (2008) e The Master (2012). Per quest’ultimo film era stato insignito anche a Venezia della Coppa Volpi alla migliore interpretazione.phil 2

Morire in bagno è il lato forse più romantico, tormentato e tragicamente compiaciuto della vita di una stella. Qualcosa che supera persino la beffarda dipartita di Paul Walker, velocista dell’auto nel teatro di Hollywood, vittima dell’alta velocità in quello reale. La lista è lunghissima, da Elvis Presley a Jack Nance, da Albert Dekker a Don Simpson… Sembra un paradosso che la parabola di un VIP si concluda proprio sul pavimento di un cesso, ma forse anche per i grandi numi cinematografici e musicali vale la medesima regola dei gatti: la morte è un fatto privato. Quando Atropo taglia il filo dell’esistenza, i felini cercano rifugio tra le fronde, lontani da sguardi indiscreti, dal rumore che per tanto tempo li ha assordati, dal conforto e dalle chiacchiere; gli uomini si dirigono invece nel locale più appartato di cui dispongano le loro abitazioni. Non importa quanti soldi tu abbia guadagnato, quanto sia conosciuto nel mondo, quanto il tuo nome sia cliccato su internet, quando è giunta la tua ora, te ne vai da solo, senza nessuno a tenerti la mano o a farti strada tra le tenebre.

phil 6Certo, magari per Hoffman non si è trattato di un’overdose, ma di un banale attacco cardiaco. L’autopsia ci svelerà molte cose, e presto un parente preciserà che non c’era nessun ago conficcato nel suo braccio al momento del ritrovamento del corpo. Vogliamo crederlo tutti. Hollywood è così, d’altronde, perché così è la vita. Si preferisce essere ricordati tra i fiori e le lacrime che tra feces et urinam, e ogni dipartita ha sempre una doppia faccia. Ci sono leggende che nascono dalla scomparsa di un divo: Judy Garland che si tagliava le vene seduta sulla tazza del gabinetto, Lupe Vélez che soffocava nel suo stesso vomito mentre china sul cesso rigettava l’overdose di barbiturici e sonniferi, Jim Morrison che periva per la droga nella vasca da bagno anziché per un più prosaico infarto. Tutti abbiamo bisogno di esorcizzare le nostre più profonde paure, così come di nutrire la morbosità un po’ guardona che, in fondo, ci portiamo dentro sin dai primordi. In vita e soprattutto in morte.

Marco Marchetti

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