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Autómata

auto locaÈ strano, ma da un po’ di tempo a questa parte il cinema di fantascienza, non necessariamente europeo, tende a presentare un modello ricorrente di robot: stessi lineamenti, medesima struttura meccanica, identica fisionomia user friendly non troppo diversa da un cartone animato o dall’emoticon che appuntiamo in fondo a un messaggio. Insomma, il simulacro dell’uomo deve giocoforza ereditare dal suo mentore le qualità migliori, amorevolmente servizievoli, fondamentalmente giudiziose e prive di quell’aggressività che invece così spesso caratterizza i diretti discendenti della scimmia. Pensate a un film come Eva (2011), spagnolo anch’esso, o al più scoppiettante Io, Robot (2004) con Will Smith: il meccano presenta sempre qualcosa di asimoviano, un guscio di metallo, ingranaggi, sensori elettronici, e un cervello al silicone che pian piano comincia a elaborare un barlume di coscienza.

automata1La pellicola di Gabe Ibáñez, effettista di Álex de la Iglesia e vincitore di Cortisonici 2007 con il corto Máquina,  non si discosta molto dal paradigma sopraesposto. Qui siamo in un futuro post-apocalittico, l’atmosfera terrestre è andata a farsi friggere e le radiazioni solari hanno bruciato tutto ciò che poteva bruciare, uomini compresi. Il risultato è un mondo desertificato, dove i poveracci vivono accampati in disgustose baraccopoli nelle periferie delle città e i sopravvissuti più privilegiati occupano piacevoli quartieri centrali con tanto di atmosfera artificiale, pioggia sintetica e tutte quelle chicche capaci di riprodurre l’illusione della normalità. E i robot cosa c’entrano? C’entrano eccome, perché sono proprio loro a occuparsi dei lavori pesanti, come costruire la muraglia che divide la civiltà dalla barbarie, e quindi i ricchi dai poveri, oppure a svolgere le mansioni domestiche che una volta si affidavano alla donna delle pulizie. Il cervello di un robot si basa sul rispetto incondizionato di due protocolli: non fare del male a nessuno e non ripararsi in caso di danneggiamento. Se così non fosse, le macchine rischierebbero seriamente di mettere in pericolo l’umana specie. O ciò che ne è rimasto. Un giorno un poliziotto (Dylan McDermott) spara a un androide che stava violando il secondo protocollo. Nessuno gli crede tranne l’agente assicurativo Jacq Vaucan (Antonio Banderas), sempre più convinto che qualcuno stia manomettendo le macchine… A dargli manforte c’è soltanto la dottoressa Dupré (Melanie Griffith), prima che misteriosi sicari le facciano saltare il cervello costringendo Vaucan a fuggire in mezzo al deserto.

automata2Autómata è un buon esercizio di stile. A colpire sono soprattutto le scenografie piovigginose, fatte di interni retrò, stampanti, computer e strumenti tecnologici dal design futuristico di un film anni settanta. Sembra che tutto sia vecchio, dimenticato nella polvere, abbandonato alla disperazione di un’umanità che non riesce più a sognare, ma soltanto a replicare paradigmi di un passato scomparso, e che accosta paradossalmente la televisione olografica a cellulari troppo datati per essere credibili. A tratti pare di assistere a una variazione dell’ottimo Metropia (2009), stesso senso di claustrofobia, stesso malinconico grigiore. Purtroppo resta però l’impressione di un’opera compiuta ma irrisolta, che dipana tante storie, troppe suggestioni, molteplici variazioni senza risolverne completamente nemmeno una. Che cos’è Autómata? Un film a sfondo sociale, che tematizza il grande, insanabile divario tra ricchi e meno abbienti? Non lo è, perché il canovaccio del muro divisorio, della separazione tra centro e periferia, metropoli e suburra, è subito abbandonato. È allora un film sull’evoluzione del robot, sulla sua presa di coscienza, sull’idea che può esserci un’evoluzione della macchina proprio come ce n’è stata una dell’uomo? In teoria sì, ma Ibáñez si perde presto in scelte francamente incomprensibili. Perché Banderas segue i robot nel cuore del deserto senza mai chiedere loro dove sono diretti? Eppure i robot non possono mentire, bastava domandare. E soprattutto, perché lo spavaldo protagonista non si accorge della pericolosità oggettiva che la trasformazione dell’androide, il suo sviluppo, la presenza di un’intelligenza superiore a quella dei suoi creatori, potrebbe un giorno comportare? Non c’è morale, non c’è etica, il messaggio è instradato sui binari della simpatia avulsa dal ragionamento.

automata3Si potrebbe continuare ancora per molto, ma a questo punto basta rimandare alla pellicola. Ibáñez è un bravissimo regista, ha tante frecce al proprio arco e fa di necessità virtù; ma resta il problema di fondo, e cioè realizzare un soggetto di Hollywood con pochi soldi (appena quindici milioni di dollari) trapiantandolo in un contesto europeo invece molto più attento all’introspezione psicologica e alla delicatezza delle emozioni. Certo la scena di ballo tra Banderas e il robot Cleo vale molto più di tanti effetti speciali, ma gli inseguimenti sono da factory americana e infatti lasciano il tempo che trovano. C’è molta poesia, innegabile, ma anche troppa irresolutezza; tanto amore per il cinema, e forse per questa umanità disperata, ormai inadatta all’ambiente e destinata forse all’estinzione, ma molta incertezza “ideologica”, come se il film non sapesse bene in che direzione andare e scendesse a compromessi con le varie tipologie di pubblico. Accontentando tutti ma senza soddisfare appieno. Non è un giudizio negativo, questo, perché se un italiano girasse un film del genere sarebbe applaudito come genio. Lo fa uno spagnolo e tutto passa un po’ sotto silenzio. Forse perché gli spagnoli sono molto più bravi degli italiani e quindi da loro, in fin dei conti, è lecito aspettarsi sempre di più.

Marco Marchetti

Autómata

Regia: Gabe Ibáñez. Sceneggiatura: Gabe Ibáñez, Igor Lagarreta, Javier Sánchez Donate. Fotografia: Alejandro Martínez. Montaggio: Sergio Rozas. Musica: Zacarías M. de la Riva. Interpreti: Antonio Banderas, Melanie Griffith, Dylan McDermott. Origine: Spagna/USA, 2014. Durata: 109′.

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