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Belle addormentate, non c’è miracolo

La vita è una condanna a morte, non c’è tempo da perdere.
Il concetto striscia nel film di Bellocchio, sussurrato tra frasi che pretendono di aprire porte chiuse e invece non aprono un bel niente. Chiavi e serrature non sono compatibili. Girano a vuoto, non girano proprio, si spezzano. Programmaticamente. Non ci sono verità da spendere, ma pensieri deboli che non convincono e descrivono l’orrore della piccolezza umana di fronte al mistero. I punti di vista naufragano e si confondono per la pochezza delle impalcature etiche che li sorreggono.
Per questo Bella addormentata è un film di traiettorie indecise, di episodi marginali cuciti in un tessuto umano che fa da sfondo a una vicenda perfettamente italiana, in cui sono convocati tutti: privati cittadini, chierici e politici, santi e diavoli, dentro e fuori le scatole televisive. Il “caso Englaro”, all’apice del suo essere caso nazionale, raccoglie soldatini schierati in difesa non della vita, ma del concetto di vita nelle accezioni individuali, che percorrono l’intero spettro che posiziona uomini e donne dal relativismo alle certezze di fede.
Viene da pensare che per capire l’operazione di Bellocchio non è possibile prescindere dalla risposta del pubblico e soprattutto della critica, quella laica e quella cattolica, frettolosamente schierate – come è da prassi nel nostro paese – nel giudicare l’autore prima che il film. A priori Bellocchio sarebbe stato per qualcuno a favore dell’eutanasia, così come lo fu Amenàbar in Mare dentro (mentre quel film, semplicemente, racchiudeva un personaggio che sfondava lo schermo con il peso del suo copro tetraplegico e incredibilmente vero, descrivendo la parabola di un singolo che non faceva ideologia ma difendeva il libero arbitrio). In Bella addormentata si agita un mondo condizionato dalla frastornante replica della Tv sulla realtà delle cose (tutta la prima insopportabile parte del film), oppio dei popoli (giusto?), tanto che lo psichiatra dei senatori nei bagni termali di Palazzo Madama sentenzia “la Tv è una cura temporanea”. Anche la politica probabilmente. I riflettori si spostano dal pubblico al privato, da ciò che viene reso pubblico dagli organi di informazione (strumentali alla politica) a ciò che vuole rimanere privato, che sia il surreale teatrino dei senatori “romani” immersi nella vasca di vapori a ridosso dell’emiciclo (trovata che vale mezzo film, Ciprì alla fotografia ci mette del suo), o la stanza protetta di una ragazza dalla bellezza preraffaellita in coma profondo. Un movimento circolare a cui il regista non rinuncia per evitare pericolosi stazionamenti che farebbero pensare a prese di posizione dichiarate.
La eco della vicenda Englaro si fa “sistema” (sicuramente una forzatura) nei tre episodi (che poi diventano quattro), dove la morte è un annuncio, una possibilità, una fuga, una liberazione, un peccato. Per tutti questi motivi un turbamento delle coscienze, perché l’accidentalità è sostituita dall’induzione. Bellocchio, scegliendo il racconto corale, nel tentativo di sfaccettare le risposte emotive che caratterizzarono gli ultimi giorni di Eluana nel febbraio 2009, inventa percorsi che invitano alla lettura simbolica (non certo una novità nel suo cinema), rischiando costantemente di lasciare fuori dalle singole storie lo spettatore, impossibilitato ad aderire emotivamente con i diversi personaggi: non la Divina Madre, attrice di fama lontana dalle scene per chiedere un miracolo che spezzi il coma vegetativo della figlia; non il senatore che aiutò la moglie a morire e che adesso deve pronunciarsi affinché Eluana rimanga attaccata alle macchine; non sua figlia Maria, tanto convinta della posizione pro-life da abbandonare il picchetto, distratta da un fuoco che la trasforma da immacolata devota a corpo passionale (il crocefisso che ha al collo, riflette lame di luce nella notte di sesso con Roberto, schierato sul fronte laico). Rimane Rossa, la tossica che vorrebbe suicidarsi e che invece in ospedale trova Pallido, un medico, che la riporta nella direzione della vita. È l’episodio più marginale e forse per questo più libero di esprimere un’idea di esistenza che si fa possibilità di futuro nei margini di un contesto solidale. Tra tante belle addormentate (o narcotizzate) il suo corpo risorge e si rimpossessa della propria ombra, non più schiacciata e annullata dalla posizione prona sul letto: l’ombra che fa spessore e proietta nello spazio l’esserci attivo, che contrasta la paralisi a vita (la figlia della Divina Madre: nemmeno un occhio per comunicare, solo “scafandro”, niente “farfalla”).
E forse è la vera risposta di Bellocchio alle sollecitazioni della morte.

Alessandro Leone

Bella addormentata

Regia: Marco Bellocchio. Sceneggiatura: Veronica Raimo, Stefano Rulli, M. Bellocchio. Fotografia: Daniele Ciprì. Montaggio: Francesca Calvelli. Musiche: Carlo Crivelli. Interpreti: Toni Servillo, Maya Sansa, Isabelle Huppert, Michele Riondino, Alba Rohrwacher, Pier Giorgio Bellocchio, Gian Marco Tognazzi, Fabrizio Falco, Roberto Herlitzka. Origine: Italia, 2012. Durata: 110’

 

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