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Benvenuto Sacro GRA

C’è il pescatore di anguille, il botanico che studia il punteruolo rosso, la transessuale che vive in roulotte, un nobile postmoderno, e poi una ballerina attempata di un nightclub, una nana, un dandy scrittore, una giraffa, i fenicotteri, una vecchia santa, un cardinale. Dal documentario di Rosi Sacro Gra, a La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino, dalle periferie urbane, ai superattici vista Colosseo, sembrerebbe che il cinema italiano non sappia raccontare l’eterna città se non attraverso i suoi estremi, gli emarginati, i paradossi, le sue mostruosità.
anguillaro_sacro_GRASorrentino si era affidato al grottesco, ad una ricostruzione decadente di una società perduta tra cinismo ed esaltazione del proprio ego. “Bellezza inafferrabile”, “santuario di meraviglia e grandezza”, la critica non si era risparmiata elogi barocchi per un film che nella sua “poeticità” da 11 milioni di euro, tanto era costato, è stato soprattutto un monumento sorrentiniano, un “ultracinema d’autore”.
Sono statue iperrealiste invece i personaggi di Sacro Gra. Rosi è noto per saper trattare il genere documentaristico riformandolo dal suo interno, lo aveva dimostrato nei suoi precedenti lavori, in particolare in quel El Sicario Room 164, in concorso nella sezione Orizzonti del festival del cinema di Venezia nel 2010, elogiato soprattutto dalla critica internazionale (ricordo che Rosi è molto più noto in Francia che qui in Italia, di tutti i suoi documentari in commercio esiste solo un cofanetto in dvd in edizione francese).
Con Sacro Gra tuttavia, Rosi non sembra essere stato altrettanto incisivo, Liberation ha scritto che è stato il suo lavoro meno riuscito, la Frankfurter Allgemeine Zeitung lo ha definito “un’operina”, la critica italiana si divide. Guardiamo al film.
Sacro Gra ha una forma piuttosto convenzionale, si compone di personaggi-isole circoscritti nel loro ambiente, di cui parallelamente sono raccontati alcuni episodi di vita; una vera e propria relazione drammaturgica tra le parti non emerge, e lo stesso GRA, Grande Raccordo Anulare, di cui il documentario si propone esserne l’interprete, non si afferma come personaggio se non nella forma di qualche visiva e visionaria inquadratura. E’ vero che i personaggi di Sacro Gra sono reali, persone vere, tuttavia vengono utilizzati e filtrati attraverso i codici della messa in scena più classica, così diventano intermezzi, quadri di una esposizione, personaggi-visione, sipari che si aprono e si richiudono nel silenzio della sala.
Nonostante Gianfranco Rosi abbia dichiarato di aver lavorato a questo progetto per almeno due anni, di questa geologia esplorativa non sembra esserci traccia. Come uno straniero più di tanto non si  avvicina al quartiere che non conosce, così Rosi sembra essersi Sacro-GRAmantenuto ad una certa distanza dai luoghi che riprendeva; si è fermato alla superficie, alla superficie delle cose, al primo livello di una ricerca, al visibile, al manifesto, a ciò che sta ai margini ma non a ciò che sta dietro, dietro alla superficie delle cose, “dietro al paesaggio”.
Veniamo ora al contesto. Il festival del cinema di Venezia, per la prima volta in 70 edizioni, ha selezionato un documentario in concorso, e lo ha persino premiato con il Leone d’Oro. “Benvenuto al Festival del cinema di Venezia!” Finalmente si è accorto che da almeno dieci anni in Italia (in Francia e in Germania sono molti di più), il documentario si sta facendo promotore di una vera e propria rinascita. Una nuova generazione di registi si è formata, rischiando molto di più di quanto il cinema di finzione italiano si sia permesso di fare. Sono autori che molto spesso si autofinanziano, si autoproducono, passano anni a lavorare su un progetto, girano e montano da soli, lottano contro una televisione e una distribuzione che sistematicamente li ignora, Rosi è un di loro, ma non il solo.
Il cinema documentario nel nostro paese esiste. È vivace, interessante, curioso, capace di sperimentare formule narrative e linguaggi del tutto innovativi. Mi riferisco ai lavori di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, Leonardo Di Costanzo, Gianfranco Pannone, Pietro Marcello, Albero Fasulo, Stefano Savona, Salvatore Mereu, Michelangelo Frammartino, Daniele Segre, Paolo Pisanelli, Cosimo Terlizzi, Alessandro Comodin. Non sono pochi ma ce ne sono tanti, tanti altri. Non solo, in questi ultimi anni in Italia sono nate associazioni come doc.it (documentaristi italiani) e tanti festival dedicati al documentario, scarsamente finanziati dagli enti pubblici ma con molto, molto pubblico, un pubblico vario e appassionato che non si riconosce nelle rappresentazioni da italietta del cinema italiano, quello “d’autore” o degli “Autori”, e quello da operetta del “cinema amore mio”, adolescenziale e comichetto.
Questo è il panorama che il Leone d’Oro di Rosi dovrebbe raccontare. Sotto Sacro Gra c’è una generazione di registi che ha preso in mano il cinema italiano e lo sta portando al suo rinnovamento, sta accadendo in un imbarazzante silenzio delle istituzioni che non lo ascoltano, raramente lo finanziano, difficilmente lo promuovono.
SacroGRACome mai giornali come La Repubblica ignorano sistematicamente questa rinascita e si concentrano tanto sulle grandi “opere” di Sorrentino, ne celebrano la vacuità, ne monumentalizzano la portata? L’intellettuale, il regista, l’artista, sono diventate figure mitiche, eroiche, quasi profetiche, è così che si cerca di venderle. Si tratta di una vera e propria banalizzazione e semplificazione di un panorama culturale che, per fortuna, è molto più vasto e più ricco.
La critica ufficiale non ne scrive quanto dovrebbe, i loro film non arrivano in sala, neppure la televisione li considera e nelle maggiori università di Italia il documentario è ancora visto come un sottogenere, eppure all’ombra del cinema italiano, questa generazione di autori, registi, documentaristi, sta cambiando il modo di raccontare il nostro paese e non solo.
E allora ben arrivato al Festival del cinema di Venezia, anzi, ben svegliato! C’è chi ha gridato ad un evento di portata storica, “un Leone d’Oro ad un documentario”, in realtà, il festival di Venezia ha premiato l’unico documentario che poteva premiare, ovvero quello che più si avvicinava alle sue abitudini,  al suo territorio, al suo campo estetico-linguistico.
Allora mi domando, se in concorso fosse davvero arrivato un documentario rischioso, come altri di Rosi e come tanti se ne sono visti in questi anni, che mettesse veramente in discussione le convenzioni del cinema di finzione, sarebbe stato comunque, lo stesso, un Leone d’Oro?

Milo Adami

Sacro GRA

Regia, sceneggiatura e fotografia: Gianfranco Rosi. Montaggio: Jacopo Quadri. Origine: Italia, 2013. Durata: 93′.

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