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Big Eyes

big locaSono i colori pastello a trarci in inganno, le atmosfere caramellose, lo zucchero filato appioppato a ogni scorcio di provincia, appiccicato a ogni angolo di inquadratura, ai vestiti, gli orpelli e i paramenti. È lo sciroppo versato a profusione a confondere le idee e ottundere la ragione, le immagini sgargianti, le file ordinatissime di villette hopperiane accarezzate dal sole del meriggio. Come se non ci fosse altro che quello, un Ralph Goings che incontra un Eric Fischl, un ballo al chiaro di luna tra un’Amy Adams conciata come una bambolina imbottita di Anafranil e un Christoph Waltz travestito da marinaretto parigino. D’altronde dopo il tuffo lisergico di Alice nel paese delle meraviglie, dopo l’incursione fanciullesca di Dark Shadows, madamazze streghe e vampiri fuori sintonia, da Tim Burton non ci si aspettava niente di diverso da ciò che è appena stato elencato: picchi pericolosamente elevati di glucosio. Invece no, o almeno non del tutto. Forse il merito è della storia, talmente vera da sembrare assurda, così fantasiosa da essere intrinsecamente burtoniana senza che Burton ci mettesse altro che la buona sceneggiatura di una pellicola biografica: sarà per questo che, dopo l’uscita di Big Eyes prevista per il primo gennaio, lo spettatore si riferirà a Walter Keane e a sua moglie Margaret come ai due protagonisti in salsa rétro di una fiaba candita; e guardando i loro quadri, malinconici e immortali come la loro strampalata storia d’amore, dirà che sembrano usciti da una pellicola diretta dal regista di Burbank piuttosto che il contrario. E come dargli torto? I due sono stati ormai totalmente banditi da qualsiasi libro di arte, cancellati, condannati alla damnatio memoriae (merito senza dubbio dell’antipatico critico John Canaday, qui interpretato da un glaciale Terence Stamp) soltanto perché Walter non era chi diceva di essere, ma un abile falsario, un cane da tartufo sguinzagliato dietro gli affari, un Andrea Diprè ante litteram dalle capacità ancora più subdole e anguillesche.big 1

In breve succede questo: verso la metà degli anni cinquanta, una sconosciuta pittrice di nome Peggy Doris Hawkins, successivamente Margaret, incontra a un’esposizione di artisti di strada lo spiantato vedutista Walter. Tra i due s’accende la fiammella del desiderio, è tutto un baci abbracci e tenere dichiarazioni, la luna di miele vien da sé e presto la bellissima coppia si ritrova a doversi pagare le bollette. Peccato che i quadri di Walter non piacciano a nessuno, mentre quelli della sua dolce consorte sì. La gabola è presto architettata: Margaret si firma con il cognome del marito, il marito si prende tutto il merito e i due diventano ricchi da fare schifo. Ma cosa possedevano di così speciale i quadri di questa donna bigotta e impacciata, prima cristiana convinta, donna fedele, madre amorevole, quindi altrettanto ispirata testimone di Geova? Lo potete constatare voi stessi osservando l’immagine riprodotta qui accanto: semplicemente la bellezza, fatta di malinconia struggente, di lontananza, di torbide frizioni; la poesia dello sguardo, metafora di un’anima affranta; il tema dello spaesamento, il turbamento freudiano, l’infanzia smarrita agli angoli delle strade. Insomma, un grande contrasto tra la società consumista americana di quegli anni, le sue superfici luccicanti, l’arte che diventava una moda a basso costo, riprodotta su poster, magliette e cataloghi, e la perdita dell’innocenza che forse si agitava sotto tutte quelle incrostazioni. Walter Keane è stato pop ancora prima di Warhol, ha inventato il kitsch quando ancora andavano per la maggiore i vari astrattisti. Peccato che nessuno se ne sia accorto tranne Woody Allen in Sleepers, quando affermava che nel futuro, nell’anno 2173, anche l’élite culturale statunitense sarebbe riuscita finalmente ad apprezzarne il genio. Il suo per i soldi e quello della moglie per l’arte. Ma perché Margaret attese oltre un decennio prima di denunciare il marito per plagio? In realtà Burton non ce lo spiega, se non con vaghe allusioni alla società patriarcale dell’epoca, quando gli uomini portavano la clava e le donne sfornavano figli come conigli. Francamente delle rivendicazioni femministe non frega un cappero a nessuno, tanto meno a noi contemporanei che abbiamo ben altro per la testa, e infatti su questo punto Amy Adams fa un po’ la figura della fessa, cioè di quella che se l’è andata a cercare e un po’ se l’è pure meritata. In fin dei conti Walter non sembra nemmeno così cattivo: ha la facciona accattivante di Christoph Waltz, i guadagni li divide con la moglie e comunque se non fosse stato per le sue idee brillanti, per il suo fiuto per gli affari, per il pugno di ferro con cui tiene per le palle galleristi e affaristi (tra cui un odioso Jason Schwartman), la buona timida Margaret sarebbe rimasta a dipingere cartoline lungo i boulevard della provincia. Vallo a capire come sono andate le cose.

big2Burton realizza comunque un film complesso su temi assolutamente già sviscerati (la riproducibilità dell’opera d’arte, la serialità dell’idea in un contesto orientato al marketing, la consapevolezza che non si dà abilità priva di abilità di vendita) senza per questo cadere nel banale. Ci sono piccole cose irrisolte come la figlia di primo matrimonio di Margaret, che fa da musa per i quadri della madre, ma che compare e scompare un po’ troppo spesso nel corso della vicenda, e nessuno riesce a capirne bene il ruolo narrativo. Ma i colori dominano, uccidono, riempiono lo schermo di esplosioni, sfumature, macchie di pura luce. È un film di confezione, direte voi, trascritto da una storia vera, un biopic incredibilmente più sofisticato della media. È una pellicola lucidata come un mobile pregiato, intagliato con tutti i crismi della professionalità, di certo non un pezzo originale ma un oggetto d’arredamento da rispolverare per ogni occasione. Diciamo che Big Eyes sta a Peyton Place come, parlando sempre d’arte, Valerio Adami sta a Francis Bacon. In una scena Amy Adams va al supermercato e comincia a vedere le persone con gli stessi occhi sproporzionati delle creature da lei dipinte. Tipo Lady Gaga in Bad Romance. Lo stile Keane ha fatto scuola, anche se abbiamo dovuto attendere un film di Tim Burton perché la storiografia gliene rendesse un doveroso riconoscimento.

Marco Marchetti

Big Eyes

Regia: Tim Burton. Sceneggiatura: Scott Alexander, Larry Karaszewski. Fotografia: Bruno Delbonnel. Montaggio: JC Bond. Musica: Danny Elfman. Interpreti: Amy Adams, Cristoph Waltz, Jason Schwartzman, Terence Stamp. Origine: USA: Anno: 2014. Durata: 104 min.

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