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Fury

fury locaSe David Ayer fosse un romanziere, la sua firma emergerebbe imperitura tra moderni classici della letteratura “di borgata”, sgomitando accanto a un Irvine Welsh particolarmente su di giri, a un William Borroughs strafatto di acidi o, perché no, a quello sperimentatore di slang suburbani quali James Ellroy. Fortunatamente per i dotti accademici dal sedere appiccicato alla cattedra universitaria, il nostro Ayer è invece un contemporaneo uomo di cinema, uno di quei bad fellas cresciuti per le periferie violente di Los Angeles, un ragazzaccio capace di stuprare il concetto stesso di settima arte e trasformare ogni storia piacevole e rispettosa in un’apologia più o meno implicita del degrado umano. Sì, Ayer è come un pasciuto porcello, che divertendosi come soltanto un porcello sa fare, grufola ammollo nel fango, si ingozza al trogolo e scodinzola tutto contento mentre lancia palle di sudiciume addosso allo spettatore. Il suo approccio alla materia è catartico nel senso greco del termine, infamante sotto quello morale, libidinoso nella prospettiva di un fanatico del genere picchiaduro e spaccatutto. Qualcuno di voi ricorderà End of Watch (2012), geniale istigazione al fascismo in divisa poliziesca, negri e ispanici pestati come bistecche al sangue da un nugolo di poliziotti bianchi, ben integrati e dediti alle gioie della famiglia eterosessuale. Oppure il recente Sabotage (2014) con Arnold Schwarznegger, un concentrato di testosterone ad alta gradazione di volgarità, fuck you e bitch mitragliati al ritmo di proiettili bollenti, teste di cuoio assassine che se la godono tra frattaglie sparpagliate e schizzi di sangue da videogame.

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Ecco, Fury non differisce di molto dai più nobili epigoni: immaginate la Germania del 1945, a pochi giorni dal crollo dell’impero, un cielo plumbeo e una campagna perennemente fangosa, macchine da guerra che schiacciano cadaveri e moribondi, teste spappolate, corpi dilaniati dalle pallottole, bombe e artiglieria pesante che arde, incendia e distrugge gli avamposti tedeschi. Brad Pitt è il sergente Don Wardaddy Collier (un nome una garanzia) che guida un colossale carro armato affettuosamente chiamato Fury nel mezzo del territorio nemico. Il suo compito è spazzare via tutti i soldati teutonici dalla faccia del pianeta, massacrarli anche quando sventolano bandiera bianca, fucilarli senza tanti cerimoniali e fare contento lo zio Sam spiegando al mondo zoticone quanto sia bella la democrazia americana. La sua truppa è composta da gente più sporca di lui, lurida, viscida e con nomi ancora più scemi: ci sono, prendendoli un po’ a caso dal mucchio, Boyd Bible Swan (Shia LaBeouf), Trini Gordo Garcia (Michael Pena) e Grady Coon-Ass Travis (Jon Bernthal). L’unica eccezione è il giovanissimo Norman Ellison (Logan Lerman), un visino coccoloso come quello di un Puffo e due occhi azzurri da fare impazzire le tedeschine in cui gli capita di imbattersi (almeno prima che gli ordigni non le mandino kaputt). Peccato che al Puffo coccoloso capiti subito un bel battesimo del fuoco, prima sbeffeggiato dai compagni tutti sbrilluccicanti per l’olio dei motori, quindi pestato dal baldanzoso sergente Pitt, infine costretto a freddare un membro disarmato delle Schutzstaffel con un colpo alla schiena (eh, mica ti guardano in faccia quando ti ammazzano).

fury 1Dopo due ore di sventramenti, omicidi, e tanti simpatici Panzerkampfwagen che perdono pezzi, bruciano in aperta campagna, abbandonano arti mozzati per gli sterrati, viene quasi voglia di abbandonare la sala. Ma qualcosa ci trattiene. È l’eroismo a stelle e strisce di Pitt, che nell’ultima mezzora scarsa ci regala un condensato di imbecillità suicida di cui è meglio tacere onde evitare incredibili spoiler. Trattasi di quella sensazione che ti fa lacrimare gli occhi, quel groppo alla gola che nemmeno la Fornero deve aver provato quando piangeva per le pensioni: è il desiderio di inchinarsi di fronte allo spirito libertario degli americani, che ci hanno portato la Coca Cola e gli straordinari hamburger del Mc, quel machismo steroidato che trasforma ogni marine in un baluardo di protezione e sicurezza. Soprattutto quando, cristologicamente, sono disposti a rischiare la vita per un progetto divino più grande di tutti loro. L’ideologia che pervade Fury è a grandi linee quella che si respirava in Jarhead parte prima e seconda, ma quanta differenza nella regia! Salda quella di Ayer, geometrica, tragicamente compiuta e perfettamente risolta, un banchetto all’atrocità, un inno al massacro, un peana agli sbudellamenti! Non c’è nulla di più poetico di un disgraziato combusto vivo che trova il coraggio, ormai rosicchiato dalle fiamme, di spararsi alla tempia. Ayer non ha senso critico, ed è questo che ci piace di lui: manicheo fino al midollo, fascista quasi quanto i tetragoni tedeschi che le sue truppe sono chiamate a sterminare, gode nella rappresentazione della violenza e si bea degli eccessi. Nessuna dialettica, nessuna retorica, soltanto un’incommensurabile macchina da presa che si libra sui campi di battaglia, oltre il bene e il male. Questo è in fin dei conti ciò che siamo: interiora eviscerate, intestina cavate a bussolotti, cervella spremute come aranci e qualche insipido ideale a rendere l’umanità ancora più squallida.

Marco Marchetti

Fury

Regia e sceneggiatura: David Ayer. Fotografia: Roman Vasyanov. Montaggio: Jay Cassidy, Dody Dorn. Musica: Steven Price. Interpreti: Brad Pitt, Shia LaBeouf, Norman Ellison, Michael Pena, Jon Bernthal. Origine: USA, 2014. Durata: 134′.

 

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