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Hungry Hearts

La premessa è di quelle che ti folgora immediatamente. Un uomo e una donna a New York. Due sconosciuti. Rimangono chiusi nelle toilette di un ristorante cinese, sono stranieri in terra straniera. L’ambiente puzza, è angusto, non possono non toccarsi. Lo sguardo è basso, sono costanzoimbarazzati. Il tempo potrebbe fermarsi e renderli due naufraghi su un’isola dimenticata. Poi la porta viene aperta dall’esterno, ma tra i due è nato qualcosa. STACCO. Interno-giorno. I due adesso sono una coppia. Lei annuncia un trasferimento prossimo (lavora per gli affari esteri), lui non si da pace. Fanno l’amore e lui consapevolmente le lascia il seme. Lei si chiama Mina (Alba Rohrwacher). Lui Jude (Adam Driver). Stanno per diventare moglie e marito, genitori di un bambino, che una veggente preannuncia (a Mina) come un essere “indaco”, speciale, magico, puro. Per questo dovrà essere salvaguardato da agenti patogeni, inquinanti, cancerogeni.
Lo spunto è il romanzo di Marco Franzoso Il bambino indaco. Saverio Costanzo rimane fedele alla sua poetica, scegliendo ancora una volta di raccontare il disagio esistenziale e la marginalità individuale. La dimensione privata (Private era il titolo del suo primo film) e le piccole tragedie umane diventano racconto universale. In Hungry Hearts è il conflitto che si consuma tra una madre e un padre, quando Mina si convince che il loro bambino è “suo” (ripete costantemente il “mio bambino”), escludendo Jude dalla genitorialità sulla base di un filo invisibile, esclusivo e magico che lega madre e figlio. Un conflitto nato solo in apparenza in gestazione – quando lei comincia ad eliminare ogni elemento proteico e, teoricamente, pericoloso e aggressivo per il futuro bambino indaco – perché la frattura ha origine nel momento in cui Jude la fa “propria”, ingravidandola nonostante lei lo supplicasse di non farlo.
Costanzo non entra fortunatamente nel dibattito che chiama in causa il veganesimo spinto e l’educazione alimentare dei figli dei vegani. È piuttosto interessato alla messa in scena della dinamica di coppia, trasformando il racconto in un thriller psicologico che inquadratura dopo inquadratura finisce per deformare gli attori e lo spazio, come se la superficie stessa del film diventasse segno del malessere profondo. Stiamo parlando di un uomo che ha vampirizzato una donna (si chiama “stokerianamente” Mina), che a sua volta vampirizza il figlio. Il cuore del racconto è nella tenzone psicologica che graffia la materia filmica. Il regista sceglie, come nell’incipit, di ingabbiare i suoi personaggi in spazi hungrychiusi, di schiacciarli dall’alto, di cambiarne le forme con l’utilizzo del fish-eye, come fosse un horror. Per questo ogni inquadratura esterna riporta ossigeno da questa e dall’altra parte dello schermo. Il registro visivo si sposa con l’accurata costruzione sonora, musiche e rumori.
Ineccepibile. I problemi arrivano a due terzi, quando Hitchcock e Polanski diventano ben più che eco lontane, quando Costanzo cerca un cinema diverso dal suo. Allora questo Rosemary’s Baby senza satana, cerca atmosfere che non trova, perché non basta più la fotografia di Fabio Cianchetti (bravo nel definire la deriva paranoica di Mina con ombre e squarci di luce), quando Costanzo descrive i passaggi del bambino dal corpo materno a quello paterno a quello della madre di lui. La triade intorno al bambino nuoce al film perché la nonna arriva senza essere stata costruita a sufficienza prima. Se Mina pure non acquista mai rotondità (di lei non sappiamo molto di più di quel che sapevamo all’inizio del film e nulla ci viene suggerito sull’inevitabilità della sua devianza), questa seconda madre non si carica mai di elementi inquietanti (nonostante le teste dei cervi rinviino a Psycho). La macchina da presa si perde nel finale, allontanandosi dal rigore che aveva sorretto il film.


La confessione finale della donna, dopo aver ucciso Mina per salvare il bambino, è quanto mai inutile, didascalica, di genere senza essere cesellata in un film di genere, e nemmeno ha i toni del dono (il bambino vivrà col padre). La sensazione è che l’incubo finisca per annacquarsi nel mare che chiude graziosamente il film.

Vera Mandusich

Hungry Hearts

Regia e sceneggiatura: Saverio Costanzo. Fotografia: Fabio Cianchetti. Montaggio: Francesca Calvelli. Musiche: Nicola Piovani. Interpreti: Adam Driver, Alba Rohrwacher, Roberta Maxwell. Origine: Italia, 2014. Durata: 109′.

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