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SPECIALE Il diritto di uccidere (Eye in the Sky)

eye coperEye in the sky, occhio nel cielo, è il titolo originale del film e dice molto, ma forse per una volta il titolo italiano riesce a entrare ancora più in profondità e riesce già con sole due parole, “diritto” e “uccidere”, a porre dei dubbi importanti.
Siamo a Nairobi, Kenya, dalla sua sala di comando il colonnello inglese Katherine Powell (una meravigliosa cattiva Helen Mirren), guida un’operazione segreta per catturare dei terroristi. Utilizzando sorveglianza a distanza, droni e altri oggettistica tecnologica (pure una microtelecamera travestita da insetto), Powell scopre che gli obiettivi stanno progettando un attentato suicida, di conseguenza il suo compito non è più quello di “catturare” ma diventa quello di “uccidere” i terroristi. Mentre il pilota americano Steve Watts (Aaron Paul) è in procinto di colpire con un missile il bersaglio, una bambina di nove anni posa il suo banco per vendere del pane proprio all’angolo della casa dove sono posizionati i terroristi. Un qualunque attacco colpirebbe a morte anche la bambina? La si potrebbe salvare? È giusto attaccare e uccidere anche la bambina? Quali potrebbero essere le conseguenze? E se non attacchiamo e i terroristi fanno l’attentato? Vale più la vita della bambina che quelle salvate dal possibile attentato? Scoppia una controversia internazionale, raggiungendo i più alti livelli del governo americano e britannico, sulle implicazioni morali, politiche e personali dell’operazione militare.
Ne nasce un film pieno di suspense che stimola moltissimo la riflessione e ci fa capire tutte le implicazioni morali che stanno dietro alla guerra eye1moderna. Escono i conflitti tra “falchi e colombe”, si vede la guerra come fosse un videogioco, la morte come danno collaterale, politici che discutono della moralità della guerra prendono le decisioni più in base alle conseguenze politico-giornalistico che sul resto. Un grande script (di Guy Hibbert) pieno di dialoghi, battute fulminanti che Gavin Hood è bravissimo a orchestrare tra dubbi e certezze, colpi di scena e attacchi di panico. Ne esce un film serissimo ma pieno di humour e con della satira grottesca che non si vedeva da un po’ di tempo in film di guerra: il ministro degli esteri britannico in collegamento direttamente dal gabinetto del suo hotel a Singapore, oppure il segretario di Stato americano a Pechino che non vuole interrompere una partita di ping pong.
Il diritto di uccidere è girato praticamente in sole due locations (la sala riunioni di Londra e la sala operativa dove la Mirren orchestra droni e telecamere) ed è con il vecchio e caro montaggio parallelo che Hood riesce a restituire tutto il clima di tensione che ci potrebbe essere in situazioni del genere. Ci riesce anche grazie alla bravura degli interpreti, sopra a tutti gli altri una odiosissima Helen Mirren e un sontuoso e ironico Alan Rickman, qui alla sua ultima performance. È indubbiamente il miglior lavoro di Hood, più del sopravvalutato premio Oscar del 2005 Il suo nome è Tsotsi. Da non perdere.

 Claudio Casazza

L’etica della guerra?

Sembra proprio l’Africa la grande ossessione di Gavin Hood. Ma non più il Sudafrica negro dove il regista, bianco, è cresciuto e ha vinto l’Oscar al Miglior film straniero nel 2005, ma le zone più a nord: il Corno, dove stavano le colonie italiane, e il Kenya appena più sotto. È qui che si eye 2concentra la sua (e la nostra) attenzione, su una landa desolata in cui si declina uno scenario guerresco, anzi diremmo post-apocalittico: baracche, poveracci che vendono ciarpame all’angolo delle strade, lungo tavolinetti e bancarelle improvvisate, e una casetta appena più elegante dove si riuniscono dei fondamentalisti islamici. Che fanno costoro? Si allacciano una cintura esplosiva per rendersi responsabili di una qualche strage. Eppure c’è qualcuno, lassù nel cielo, che li osserva. Un satellite invisibile, un occhio meccanico, una cimice ronzante che si intrufola nelle vite di queste persone così lontane, le scruta, le osserva, segna tracciati, analizza dati, scorre liste di volti sospetti per trovare l’incastro perfetto. E poi ci sono loro, gli alleati, le forze del Bene: il colonnello Powell, il generale Benson (Alan Rickman, ammalatosi poco dopo le riprese, recentemente deceduto: alla sua memoria è dedicato il film); più una selva sudaticcia di politici e rappresentanti delle public relations che tentano accordi, siglano documenti, si raccapezzano per capire cosa fare. La situazione è questa, per tutta la pellicola, dall’inizio alla fine, senza interruzione, salti temporali o sbandamenti di sorta: in Africa qualcuno sta per organizzare un attentato, a molti chilometri di distanza gli alti papaveri del potere politico-militare osservano i responsabili cercando il momento giusto per sganciare una bomba. Un drone passa di lì, un pilota preme il pulsante da tutt’altra parte e il pericolo è sventato. O almeno così dovrebbe essere. D’improvviso arriva infatti una bambina a vendere il pane, proprio davanti alla casa dei terroristi, e il meccanismo si ferma.
Si potrebbe uccidere una bambina, anche se il suo sacrificio servisse a sventare un pericoloso attacco terroristico? Sarebbe lecito assassinare un dirittosingolo innocente, rubricandone l’immolazione tra i danni collaterali di un’operazione militare, oppure la sua morte finirebbe per provocare uno tsunami morale capace di investire il mondo della politica e dei suoi rappresentanti? Il condizionale è opinabile, nella realtà dei fatti si fa questo e molto altro, ma a Gavin Hood non interessano le questioni filologiche o le ipotesi belliche, quanto l’astuzia di un quesito etico. Cioè Wood non pensa al caso astratto, ma semmai all’astrazione della guerra, all’idea che il mondo dei missili si stia tecnologizzando, che premere un bottone o osservare il nemico su uno schermo satellitare possa rendere l’omicidio meno brutale di una baionettata nella pancia o di una sventagliata di proiettili. Invece no, per lui no: è tutto molto semplice. Una bambina che passeggia per la strada ha importanza, e la sua vita (sacrificabile dal punto di vista strategico) diventa d’un tratto il momento catartico attorno a cui si concentra il senso della pellicola. Non c’è niente di nuovo sotto al sole, vengono in mente, così en passant, due filmetti sull’argomento, La guerra di Charlie Wilson (2007) di Mike Nichols e Good Kill (2014) di Andrew Niccol. Due registi dal nome simile, e anche dalla retorica simile. Certo Gavin Hood è più furbetto, sa essere gorgiano dove gli fa comodo e più tortuoso di un avvocato. Non è un difetto, il suo film condensa in 102 minuti una situazione surreale, il cui perno è tutto giocato sullo spostamento spaziale: dall’Africa all’Inghilterra agli Stati Uniti con una veloce incursione in una partita di ping pong cinese. L’intento è smascherare il Potere, riprenderne i vizi e il decisionismo sbrigativo. L’idea di filmare il Segretario di Stato che dispensa vita e morte come un moderno Ponzio Pilato mentre sta cagando in preda a un attacco di mal di pancia è sicuramente interessante. L’aveva già fatto Oliver Stone, collocando sul cesso George Bush junior (che lì si puliva pure il culo di fronte alla moglie: senza vergogna alcuna), ma tant’è. Hood vuole di più, il sentimento, la lacrimuccia, ci mostra a tutti i costi il lato buonista dei militari che forse (sottolineiamo forse) potrebbero mettersi la mano sul cuore e rimandare l’operazione.

C’è il satellite, c’è l’uccellino artificiale con le telecamere al posto degli occhi, c’è il nero che pilota un moscone meccanico che funge da video trasmettitore. Manca qualcosa? Diremmo di no. Hood è bravo, è geometrico, e alla fine fa un film che non riguarda il conflitto armato ma la sua interruzione, la sospensione, il momento in cui si deve intervenire ma c’è qualcosa che ce lo impedisce, che ci blocca parlando al profondo, che ci scuote nei precordi. La morale, la bellezza dell’innocenza, la candida semplicità di una bambina. Nessuno ci crede, siamo tutti troppo vecchi, cinici e acciaccati per fidarci degli uomini, tanto meno di quelli che indossano la divisa e lanciano le bombe.

Marco Marchetti

Il diritto di uccidere – Eye in the Sky

Regia: Gavin Hood. Sceneggiatura: Guy Hibbert. Fotografia: Haris Zambarloukos. Montaggio: Megan Gill. Musica: Paul Hepker Mark Kilian. Interpreti: Heln Mirren, Alan Rickman, Aaron Paul, Jeremy Northam. Origine: UK, 2016. Durata: 102′.

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