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Il processo ai Chicago 7

Vergogne americane (il cinema che apre gli armadi)

Prodotto dalla DreamWorks di Spielberg, che avrebbe voluto tradurre personalmente la sceneggiatura basata sugli eventi drammatici del 28 agosto 1968, Il processo ai Chicago 7 si posiziona nell’alveo del cinema di impegno civile che da tempo (in leggera differita già con i protagonisti della Nuova Hollywood) cerca di guardare agli anni più caldi del secondo dopoguerra americano: i sixties e i seventies. In sala (ops, in streaming targato Netflix) ci arriva con la firma del drammaturgo e sceneggiatore Aaron Sorkin, qui anche regista e in passato vincitore di un oscar per l’adattamento di The Social Network.

Il presente del film è il 1969, quando a gennaio nella stessa Chicago si apre il processo a sette (più uno) sospettati di sedizione e incitazione alla violenza durante la convention democratica dell’estate precedente. L’ottavo è Bobby Seale, tra i leader di spicco delle Pantere Nere, che in realtà quel giorno a Chicago vi aveva sostato per sole quattro ore e non aveva partecipato alla manifestazione. Si capisce che gli otto imputati, di estrazione diversa e con schemi ideologici non sempre coincidenti, siano capri espiatori in un processo farsa dall’esito già scritto e condotto con piglio autoritario da un giudice di matrice conservatrice viziato da preconcetti e determinato ad arrivare alla condanna. Una serie di testimonianze aprono flashback sulla manifestazione e le ore immediatamente precedenti, ricostruendo quella che è possibile definire una imboscata della polizia federale e le violenze protratte fino a tarda sera quando interviene la Guardia Nazionale. I manifestanti, tra cui si confondevano poliziotti infiltrati, rappresentavano diversi movimenti della cosiddetta controcultura, intenzionati a far sentire pacificamente il proprio dissenso, soprattutto verso la decisione di incrementare il numero di giovani soldati di stanza in Vietnam negli ultimi mesi (cruciali) di presidenza Johnson, prima dell’insediamento del repubblicano Nixon.

Proprio nell’estate 1968, poco dopo l’uscita de La calda notte dell’ispettore Tibbs, Haskell Wexler, che di quel film aveva curato la fotografia, con una troupe leggerissima aveva raggiunto Chicago, prevedendo scontri tra polizia federale e manifestanti. Si preparava a filmare con l’obiettivo di inserire sequenze di cinéma vérité nel suo lungometraggio Medium Cool, che girava attorno proprio ai fatti di Chicago. Un film a dir poco sorprendente per la commistione virtuosa tra fiction e documento puro. La protagonista Verna Bloom di giallo vestita vagava stranita tra i manifestanti picchiati e le devastazioni degli scontri; mentre Wexler, dietro la macchina da presa, rubava attimi di storia da cucire nella trama del suo capolavoro.
Rivederne alcuni passaggi oggi fa pensare a un controcampo della ricostruzione fatta da Sorkin; l’impatto è ancora più drammatico. Ma Il processo ai Chicago 7 fa “crossover” con un altro film, che invece è in uscita in questi giorni: si tratta di Judas and the Black Messiah, che cita esplicitamente l’umiliante aggressione di Bobby Seale nell’aula del tribunale, imbavagliato e legato di fronte al pubblico ministero Julius Hoffman per averlo “provocato”, insinuando che le accuse di essere tra i trascinatori delle proteste violente siano di matrice politica. Specularmente Sorkin non dimentica la morte – anzi, l’esecuzione – del sommo leader delle Pantere Nere, Fred Hampton, il messia nero appunto: sottoforma di velina funebre, durante il processo farsa, la notizia arriva in aula con la portata devastante di una bomba, come se non bastasse il fuoco che già divampava tra accusati e accusatori. Uno dei momenti più intensi del film.
L’uscita a poca distanza di tempo dei due film non dovrebbe sorprendere, dal momento che dopo l’omicidio di George Floyd, il Black Lives Matter è tornato a far sentire alta la voce della protesta.
Come si diceva, il cinema americano, per mettere a fuoco il presente, continua a fare i conti con la sua storia recente: in particolare quel passaggio cruciale che dalla seconda metà degli anni 60 alla prima metà degli anni 70 ha visto lo scontro intergenerazionale, con i figli poco disposti ad accettare il conservatorismo dei padri e disposti a farsi massacrare dai manganelli, piuttosto che abbandonare la netta condanna del militarismo connesso all’imperialismo statunitense, o di abiurare l’appartenenza orgogliosa alla cosiddetta “controcultura”, capitanati dai poeti della Beat (vedi Allen Ginsberg alla testa del corteo a Chicago). I temi forti, soprattutto dopo le morti di Martin Luther King e Robert Kennedy, ovviamente erano il Vietnam, la questione razziale e in generale l’auspicato azzeramento di qualsiasi discriminazione sociale. Fragole e sangue di Stuart Hagmann ne fu il Manifesto, ancora più del cult anarchico Easy Rider o di Alice’s Restaurant, altro film del 69, con e ispirato dal figlio di Woody Guthrie, Arlo. Nemmeno a dirlo, i cantori delle classi povere e discriminate d’America.

Dunque Il processo ai Chicago 7 vive tra eco cinematografiche e l’urgenza pressante di raccontare ancora e ancora un periodo storico che rischia di non farsi monito, adesso più che mai, dopo quattro anni di populismo spinto e demarcazione tra polarità in cui emerge inquietante, da parte conservatrice, il Moloch del suprematismo bianco. Il governo della menzogna costruita a regola d’arte o dell’impossibilità di guardare alla verità, tema già caro al Sorkin sceneggiatore, torna in questo film, ma la macchinazione che vorrebbe distorcere i fatti a uso politico, condannando i 7+1 imputati per punire un’intera generazione di giovani arrabbiati, a volte rischia di perdere i connotati diabolici che ha invece la giustizia ingiusta, o che hanno i tutori dell’ordine quando smettono di essere a servizio di tutti i cittadini.

La dialettica tra l’avvocato che difende gli accusati e il pubblico ministero, e tra questi e gli accusati stessi, a volte cade vittima della volontà di un ritratto grottesco della toga, rischiando di annacquare la tensione tra chi attacca e chi si difende. L’impianto drammaturgico, con i fatti sanguinosi raccontati in flashback a circa metà film, collocano lo spettatore senza riserve a fianco dei giovani sotto processo, depotenziando però quell’ambiguità sottesa alle posizioni differenti che gli stessi imputati abbracciavano ancor prima della manifestazione. Per questo diventano più interessanti gli scambi dialettici su cosa debba essere la rivoluzione tra il mattatore e capopopolo Debbie Hoffman (Sacha Baron Cohen) e Tom Hayden (Eddie Redmayne): stessi obiettivi ma strategie opposte, sfrontato anarchico e allergico alle mediazioni il primo, portato alla cautela strategica e liberal il secondo (che infatti nel 1982 verrà eletto al Parlamento della California).
Il finale rende insopportabile la condanna a cinque anni, ma consegna alla storia le voci dei sette di Chicago, quando Hayden decide di chiudere con un vero colpo ad effetto, la lettura dei nomi di tutti i caduti americani in Vietnam dall’inizio dell’invasione. Molto Spielberghiano.

Alessandro Leone

Il processo ai Chicago 7

Regia e sceneggiatura: Aaron Sorkin. Fotografia: Phedon Papamichael. Montaggio: Alan Baumgarten. Musica: Daniel Pemberton. Interpreti: Alex Sharp, Ben Shenkman, Eddie Redmayne, Frank Langella John Carroll Lynch, Sacha Baron Cohen, Jeremy Strong, Joseph Gordon-Levitt. Origine: Usa, 2020. Durata: 129′.

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