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IL TERRORISMO DEL SENTIMENTO. Scomparsa e (im)possibile rinascita di un autore

Sono ormai passati ventidue anni dalla morte di Rainer Werner Fassbinder. Nonostante i numerosi appelli giunti da parte di una buona fetta della critica cinematografica, l’opera del grande autore s’è rapidamente dissolta nel nulla. Riuscire oggi a vedere un film di Fassbinder in sala è raro se non praticamente impossibile.

Si dirà che in fondo questa è la sorte di un’arte effimera come il cinema, fortemente compromessa dalle grandi majors e ancor più dipendente dall’usura inevitabile delle pellicole, che il lavoro delle poche cineteche riesce a malapena a rallentare… Ma le opere di Fassbinder sono di qualità rara e anche un numero impressionante considerando i pochi anni di attività del regista. Secondo il conto di Davide Ferrario (autore di un’ottima monografia, edita Castoro, per chi voglia addentrarsi nel mondo del regista) ben trentasette lungometraggi in soli tredici anni di produzione.

Di questa sparizione si sono cercate diverse spiegazioni. La più accreditata va attribuita a Giovanni Spagnoletti (eminente critico che si è spesso occupato tra le pagine di Cineforum di tali problemi) che vede nella filmografia fassbinderiana un fortissimo legame con il ‘presente’ in cui è nata. Si è fatto un gran parlare di quanto i melodrammi di Fassbinder avessero come protagonista ‘tra le righe’la Germaniadel dopoguerra. Seconda motivazione, il cinema di Fassbinder è terribilmente trasgressivo per poter trovare nuova vita in televisione: vero, anche se si dovrebbe dire ‘terribilmente intelligente’, perché la trasgressione, specie se volgare e poco impegnativa, di spazio ne trova e molto…

Eppure in tutto questo non riesco ancora a trovare una vera e propria giustificazione della dimenticanza  di  una così  imponente  parte  della cinematografia degli ultimi cinquant’anni. Infatti, Fassbinder ci ha lasciato in tredici anni di lavoro trenta lungometraggi e numerose altre realizzazioni, tra cui testi teatrali e serial televisivi… Pensando ad Elephant di Gus Van Sant, è come se ci fosse un elefante davanti ai nostri occhi e noi non riuscissimo a vederlo.

Il ‘problema Fassbinder’ credo sia indice di una ben più ampia mancanza. L’odierna società occidentale non ritrae più ciò che è scomodo, difficile, negativo, ‘brutto’. È come se una parte di noi fosse sepolta sotto migliaia di immagini patinate. Il più diffuso concetto di ‘bello’, che spesso coincide con l’ideale proposto da tanto cinema hollywoodiano e dalla pubblicità, sta cancellando completamente tutto ciò che può essere doloroso per lo spettatore. Il melodramma (a cui Fassbinder è intimamente legato), che portava ad un confronto con le proprie ansie, con le proprie passioni più istintive, con la parte più cupa del nostro essere, viene ora trasformato nel più innocuo commovente, sentimentale prodotto del piccolo schermo. Per fare un esempio basti citare il modo in cui è stato accolto un film certo terribile per forza distruttiva, addirittura crudele nel mostrare la sofferenza con sguardo cinico e complice, come La pianista di Haneke. Il suo tentativo di indagare nei rapporti umani più difficili e scabrosi ne ha provocato l’immediata astensione del pubblico, e la critica se n’è dimenticata altrettanto in fretta. Haneke ha compiuto un gesto indubbiamente coraggioso. Per restare in Italia, è da poco giunto nelle sale un film di Garrone, Primo amore, presentato all’ultimo Festival di Berlino, e, sebbene i risultati di affluenza non siano stati negativi, è chiaro fin d’ora che non troverà mai replica in quell’importante mezzo di diffusione che è la televisione.

Un concetto di ‘bello’, quello odierno, che oltretutto si allontana sempre più dalla fisicità, che l’opera fassbinderiana, invece, esprime nel modo più crudo e sincero. Lo scontro e l’incontro tra le passioni umane e la realtà passano attraverso il possesso e la conoscenza del corpo. I desideri stessi si materializzano nella carne delle persone amate e nei materiali degli oggetti usati. In Il matrimonio di Maria Braun, uno dei più alti capolavori del nostro autore, se non il più grande, le carezze affettuose tra due amanti dopo una notte passata insieme si trasformano in un gesto di supremazia e di conquista che svela tutta la materialità dell’amore attraverso la manipolazione della pelle madida di sudore. Un mondo fisico quindi, inevitabilmente lontano dall’universo etereo e visivo dei commercials per i profumi di Calvin Klein, apice estetico del mondo pubblicitario dei nostri anni, che interpretano lo stesso gesto delle carezze tra amanti (vedi la campagna video per Eternity) in un modo completamente immateriale, in un bianco e nero idealizzante. Non è un caso che il prodotto in questione sia un oggetto che nega una delle vie di comunicazione più fisiche e istintive che abbiamo: l’odore.

In questo senso il cinema di Fassbinder può essere ancora attuale: il suo rappresentare l’alienazione che si nasconde in molti rapporti di coppia e il desiderio di fisicità repressa, il suo far sentire allo spettatore tutte le sofferenze di un rapporto maniacale con sé e gli altri può e deve essere un modo per reimparare a guardare una parte di noi contraddittoria, negativa certo, ma ‘inumanamente’ rimossa. Il cinema di Fassbinder diviene con la sua durezza e forza rappresentativa un ‘terrorismo del sentimento’ che può risvegliare le coscienze sopite. Tutto ciò non va più inteso in senso politico, motivo forte ai tempi della realizzazione, oggi superato, ma in un senso psicologico e sociale.

Per tornare a Elephant, non dobbiamo dimenticare che l’incapacità di vedere crea mostri ingovernabili…

Alessandro Fasolo

(Pubblicato sul n°24 della versione cartacea, settembre 2004)

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