Percorsi

Il Vangelo secondo Pasolini

Matera1Bisogna aspettare le prime luci dell’alba e percorrere il labirinto che dal Sasso Caveoso porta verso il Duomo. Poi da un belvedere all’altro, verso il Barisano. Altrimenti scegliere di guardare i sassi da lontano, dai siti rupestri, e fingere di essere a due passi da Gerusalemme, 2000 anni fa. Un salto temporale possibile fino a quando il sole non solletica i turisti nei B&B sorti un po’ ovunque nella Matera vecchia e nuova.
Pier Paolo Pasolini ci aveva trovato la sua Palestina in questo terzo mondo d’Italia, autenticamente antico, i suoi borghi già quasi abbandonati a favore dell’idea contraddittoria di città-laboratorio. I sopralluoghi in Terra Santa avevano deluso l’uomo, provocato il poeta, smontato l’idea di cinema del cineasta. La Storia era una filigrana nel tessuto della modernità, semplificata ad uso e consumo del turismo religioso: la teca dei luoghi di Cristo non dialogava più con il vangelo di Matteo.
Per questo la terra di Nostro Signore andava trovata altrove, con sguardo laico, nel sud incontaminato perché risparmiato dal progresso, inviso dai poteri forti o forse non ancora mercificato. Pasolini percorre le gravine pugliesi da Massafra a Ginosa, la Basilicata, e giù fino a Crotone. La terra assomiglia ai volti di chi la abita: visi scavati, segni profondi intorno ad occhi che si accendono improvvisamente, labbra riarse. Al resto ci avrebbe pensato la fotografia di Tonino Delli Colli al servizio di un’idea antiaccademica di cinema. Ma a questo punto, 1964, dopo Accattone, Mamma Roma, La ricotta, s’era capito che le sgrammaticature non erano errori di un letterato prestato al cinema, ma scelte espressive al servizio di una poetica. Grandangolari sui volti, montati prima di campi lunghissimi e poi volti umili ripresi da lontano da un teleobiettivo per raccogliere la spontaneità di un’espressione, la semplicità di un gesto non il-vangelorichiesto. Dettagli rubati ad attori non-attori, stupefatti dalla macchina-cinema, a cui Pasolini non chiede altro che essere se stessi, come se non fossero passati due mila anni, un attimo prima dell’irreversibile rivoluzione della modernità e dunque della massificazione.
I personaggi principali venivano altrimenti ingaggiati tra amici e conoscenti. Sua madre Susanna trasformata in Maria (come a rimarcare l’identificazione del regista nella figura tragica di Cristo). Il Cristo stesso trovato per caso, dopo una ricerca infruttuosa, dopo aver ipotizzato il poeta russo Evtusenko, addirittura il beat Jack Kerouac! Poi uno studente di letteratura, il catalano Enrique Irazoqui autore di un saggio su Ragazzi di vita, romanzo dalla cui “costola” erano nati i suoi primi film, arriva a Roma per incontrare e conoscere il poeta; Pasolini lo vede e vi scopre nelle trame del suo viso uno dei Cristi dipinti da El Greco: il suo Cristo, severo, troppo severo – affermerà qualcuno.
Pasolini non è spaventato da un set di non professionisti. La formula già applicata in precedenza calza a pennello nell’affresco del Vangelo. Non è l’attore che serve il film, non la sua interpretazione di un ruolo scritto e fatto proprio. Il volto e il corpo diventano elementi espressionistici davanti agli obiettivi della mdp (c’è la lezione di Dreyer), scalfiti da luci abbaglianti maria_giovaneo divorati dai bruni notturni, senza perdere di verità. E come i materani diventano più veri dei palestinesi, così Matera, regina tra le location, diventa il luogo della passione.
Nasce Il Vangelo secondo Matteo, che arriva a Venezia, irrompendo in un’edizione fino a quel momento senza sussulti (sarà Premio speciale della Giuria). L’arrivo di Pasolini aveva già scatenato i suoi detrattori, i movimenti di destra. Inoltre c’è la questione di un ateo che traspone un Vangelo. Eppure la proiezione mette d’accordo quasi tutti. Quasi, perché la sinistra lo attacca, provocata dal fatto che si ritenga ancora marxista. Soprattutto applaude la gran parte del mondo cattolico, che gli assegna il premio Office Catholique International du Cinéma. Ma i motivi che spingono Pasolini verso il racconto di Matteo sono altri.
Il film fu concepito in un albergo ad Assisi, quando, costretto in camera, dalla coincidente visita del Papa e dal conseguente clamore cittadino, il cineasta si trovò solo con una copia del Vangelo (lo racconta in I doveri di uno scrittore). “È stata quella la più bella lettura di questi ultimi miei anni. (…) Era la prima volta che lo rileggevo (o leggevo veramente) come si legge un romanzo, un poema”. Si legge più avanti: “Ora, io non sono un credente. Non solo, ma in un paese in cui il Cattolicesimo è la religione di stato, sono uno dei pochi che dichiarano il proprio ateismo pubblicamente. Qual’è, allora, la necessità di questo film, se non è la propaganda religiosa, la glorificazione di Cristo? È chiaro che un’ispirazione estetica nasconde sempre qualcos’altro, anche se qualche volta si presenta come predominante ed esclusiva. La funzione apostolica del Vangelo doveva ovviamente permanere anche nel mio film: ma quale apostolato? ossia: contro quali nemici, in favore di quali innocenti, per la convinzione di quali ignari? Mi fu subito chiaro. Il grande nemico del mondo italiano – e occidentale – è il conformismo, che non è nemmeno pasolini_a_materaquello dei farisei (…), ma è il conformismo dell’indifferenza, del qualunquismo. Non c’è niente di più nemico delle verità che l’acquiscenza, la riduttività, l’idea anti-idealistica del mondo come sede di un’esistenza indifferenziata perbene, benedetta da tutte le regole della norma. Il cinismo, insomma, che, per quieto vivere e per ipocrisia, si nasconde sotto false religioni. Questo è il male classico della società borghese: il neocapitalismo si accinge a consacrarlo per sempre, nella ferrea morsa dell’industrializzazione e della cultura di massa. Il Vangelo è il contrario di tutto questo: non c’è indifferenza, non c’è passività, non c’è rinuncia, non c’è ironia, non c’è , riduttività, non c’è cinismo”.
Il Cristo di Pasolini per questo è “implacabile, furente, senza pace, ossesso”. Intransigente come il poeta, che scriva o che giri film. Il Vangelo diventa attualissimo e il fatto che sia ambientato nel Mezzogiorno sconcerta ancora di più, non trovando purtroppo pronta la critica di sinistra, persa nella dialettica superficiale di un marxista che guarda alle parabole di Gesù, senza comprendere la sagacia di quella trasposizione: i farisei, pasolinii falsi idoli, la “la ferrea morsa dell’industrializzazione e della cultura di massa”, che si stava già divorando le specificità culturali, l’autenticità contadina, affrancando ipocritamente (e sistematicamente) quel “terzo mondo italiano” dalla povertà per farlo parte di quello che diventerà il mercato massificato.
Per questo Cristo è una voce che urla sussurrando e non ammette revoche. Verrà definito troppo arrabbiato. La sua sopravvivenza del resto non costò forse la vita di bambini innocenti (massacrati tra l’altro da uomini che indossavano fez fascisti)? Per questo Cristo non esita mai, con sguardo imperturbabile non desiste, “non cede un attimo al perdono intellettuale, alla tregua dell’intelligenza. È sempre sveglio, teso, nell’uso di una critica che non passa su nulla, che non rimanda nulla. La mitezza! Oh, non è una mitezza romantica e decadente la sua: perché se il cuore perdona, la ragione non cessa un solo istante di spiegarne il senso, la qualità, l’ideologia di quel perdono. E in questa disperata, ebbra tensione d’amore ragionante, egli non teme nessuna (sottolineatura di Pasolini sul testo originale, nda) contraddizione”.
Nemmeno la morte.

Alessandro Leone

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