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Il vizio della speranza

viziosperanzaEdoardo De Angelis in un’intervista ha detto che per girare questo film si sono dovuti mettere «le buste dell’immondizia intorno ai piedi». E si vede. Gli elementi della natura non devono essere stati molto propizi, se durante le riprese ha sempre piovuto e anche nevicato, così come non lo sono – diegeticamente – per i protagonisti del suo ultimo film, Il vizio della speranza.
Maria (Pina Turco) vive con le sue due madri su un molo alla foce del fiume Volturno, in una piccola comunità di prostitute retta dalla eroinomane di bianco vestita Zia Marì (l’intensa, distaccata e a tratti persino divertente Marina Confalone); ed effettivamente quasi per l’intera durata del film cammina con le scarpe ammollo nell’acqua e nel fango (e nella spazzatura e nelle macerie). Acqua (mare e fiume, onnipresenti), fango, fuochi: gli elementi di un girone infernale in cui Maria agisce nelle vesti di moderna Caronte. Suo è infatti il compito di traghettare le prostitute incinte dalla riva destra alla riva sinistra del fiume, dove verranno fatte partorire in una catapecchia e dove verranno loro sottratti i neonati, destinati a famiglie paganti. Due parole sono bandite da questo inferno: speranza e libertà. La stessa protagonista non sembra provare alcuna compassione per le ragazze che accompagna («Dovete togliervi questo vizio di dire stronzate», dice a una di loro che vorrebbe tenersi il figlio), finché non arriva il giorno in cui si rende conto che lei stessa potrebbe trasformarsi da traghettatrice a traghettata, perché porta un bambino nella pancia.

il-vizio-della-speranza1A distanza di due anni, De Angelis torna sui luoghi di Indivisibili, e non si può dire che lo faccia con uno sguardo nuovo. Le musiche originali di Enzo Avitabile, immaginifiche, ritualeggianti e bellissime, strattonano ancora di più i personaggi verso il loro destino, più che accompagnarli; parallelamente il napoletano stretto del film del 2016 lascia il posto all’italiano, lingua franca di un contesto multietnico solo a tratti intersecata da brevi scambi in dialetto o in inglese (scelta questa facilitante per lo spettatore, ma qualcosa rispetto a Indivisibili si perde). Spentosi il sole che ogni tanto brillava sulle gemelle siamesi, il regista ambienta Il vizio della speranza a ridosso del Natale, nel mezzo di un inverno gelido sulla pelle e livido nei colori, che affonda letteralmente negli elementi naturali grazie a una fotografia cupa e contrastata. Siamo ancora ben radicati in quell’immaginario: un mondo di emarginati che vivono ai confini della società, un mondo in cui i più deboli (le più deboli, e i loro corpi) vengono sfruttati non tanto dai più forti, ma solo da chi è riuscito, del tutto provvisoriamente, ad arrogarsi il diritto di farlo.
Eppure il film è lontanissimo da qualsiasi realismo documentario, e galleggia piuttosto nei dintorni di un realismo magico. L’iconografia cristiana è pervasiva, come lo era in Indivisibili, ma qui si fa addirittura struttura portante del racconto, che altro non è se non la storia della nascita di un bambino nel giorno del Natale («la storia più semplice», l’ha definita il regista); nascita desiderata e osteggiata, ma fondamentalmente voluta da Dio. E storia di metamorfosi: di Maria da pagana Caronte a Madonna sacrificale; del giostraio Carlo Pengue (il bravissimo Massimiliano Rossi, già padre padrone delle gemelle di Indivisibili) da supposto stupratore a redento Giuseppe. Il film è intriso di simbolismi (dai nomi al cavallo, alla mano di Dio) neanche poi tanto velati, anzi espliciti al limite dell’esibito: e la storia, cruda, feroce, rischia quasi di annullarsi nel linguaggio metaforico e traslato che è nelle corde del regista. Che però, sebbene proprio questa sia la sua ricerca e questo il suo linguaggio, fatica a commuovere sinceramente.
Anche le donne, che pure sono protagoniste, non stanno mai solo per se stesse, ma significano, rappresentano sempre qualcosa che va al di là di loro (la cinica sfruttatrice ingioiellata, moderna Mangiafuoco al femminile; le due madri di Maria, menzognere e mentalmente disturbate; la figlia bella, pura e claudicante di una delle prostitute; e così via). E così Il vizio della speranza, che pure è, ancora più del film precedente, un film di donne, non è però un film sulle donne. Non si parla di loro, e a tratti sembra non si parli neanche di Maria, ma piuttosto di ciò che lei simboleggia: dubbio, martirio, fuga, imporsi di una volontà. La libertà di sperare e la speranza della libertà.


Questa società matriarcale (in cui figurano, oltre a Carlo che “pescò” Maria dalle acque del Volturno quando era bambina, soltanto un ginecologo, anche lui sottomesso alla Zia Marì, un prete nominato ma invisibile, e pochi altri sparuti omuncoli-ombre), governata da figure “materne” degeneri o sfruttatrici, comunque manchevoli, è calata in un mondo sospeso come quello di certe fiabe (nere), un mondo in cui la speranza è un viziaccio, una malerba da estirpare sul nascere; un mondo che è una bolla di realtà tagliata fuori dal tempo, dallo spazio e dalla società ordinaria – che in questo mondo non esiste. Se esiste (e da qualche parte, sulla riva sinistra, deve esistere, affinché questo angolo stregato sia credibile), assume le forme di un citofono della Caritas, a cui – forse – non sarebbe poi così difficile affidarsi. Anche perché, al citofono, risponde una voce gentile, e la porta si apre; ma Maria se ne va. Probabilmente la libertà che cerca la può trovare solo restando dentro al suo mondo, e non uscendone.

Giulia Tiziani

Il vizio della speranza

Regia: Edoardo De Angelis. Sceneggiatura: Umberto Contarello, Edoardo De Angelis. Fotografia: Ferran Paredes. Montaggio: Chiara Griziotti. Musiche: Enzo Avitabile. Interpreti: Pina Turco, Massimiliano Rossi, Marina Confalone, Cristina Donadio, Odette Gomis, Juliet Esey Joseph, Mariangela Robustelli, Jane Bobkova, Demi Licata. Origine: Italia, 2018. Durata: 90′.

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