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Intervista a Emiliano Morreale

emiliano-morrealeEmiliano Morreale è critico del settimanale “L’Espresso” e redattore della rivista “Lo straniero”. Collabora con “Il Sole 24 Ore”, “La Repubblica” e con i “Cahiers du cinéma”. Insegna all’Università di Torino e dal 2012 è il conservatore della Cineteca Nazionale.

A cosa serve la critica cinematografica, oggi? Se serve a qualcosa…
In maniera molto banale, può servire a segnalare delle pellicole che per le leggi del mercato sono condannate a una minore visibilità, per far passare degli autori e un’idea di cinema che altrimenti non avrebbero il giusto riconoscimento. Le leggi del mercato privilegiano infatti alcuni prodotti a scapito di altri, allora la critica può andare un po’ contromano e segnalare, fra le uscite, le cose che valgono e che vale la pena di vedere, anche cominciando proprio dal cinema italiano.

Per quanto riguarda la critica cosiddetta generalista, quella dei quotidiani e dei grossi giornali, c’è un qualche tipo di condizionamento editoriale? Cioè c’è un editore che impone i film di cui discutere, o il critico gode di una certa libertà nell’approcciarsi a film magari meno conosciuti?
Certo ci sono i film del momento ed è chiaro che si recensiscono, ma questo avviene più in base alle logiche dell’evento culturale che economico. Se uno non parla di Cenerentola, non è grave, ma è impensabile non recensire l’ultimo film di Sorrentino [Youth, ndr]. Direi che più in generale il condizionamento riguarda lo spazio della critica, nel senso che sono pochi i luoghi in cui poter parlare di cinema. Paolo Mereghetti, per esempio, è uno di quelli che ha spazio sufficiente per elaborare un ragionamento su un film, ma l’ampiezza di un articolo è in genere compromessa per ovvie ragioni editoriali. Io per esempio su “L’Espresso” ho una rubrica di duemila battute, cioè venti righe. Inoltre diminuisce la visibilità della critica rispetto ai pezzi di costume. Pensiamo ai festival, dove ci sono due pagine dedicate alle attrici, all’evento, all’intervista, mentre la parte di intervento critico è sempre più ridotta.

In cosa è cambiata la critica oggi rispetto a trenta o quarant’anni fa? È soltanto un discorso di restrizione degli spazi editoriali?
No, credo che ci fosse comunque una figura del critico umanista, un critico dalla fisionomia più riconoscibile rispetto ad adesso. Per esempio “Repubblica” non ha un critico ufficiale, contrariamente al “Corriere”. Nella maggior parte dei casi non c’è più una figura istituzionale come un Kezich, questo né per quanto riguarda la critica generalista, né i giornali di tendenza.

Insomma la critica manca di una figura di riferimento, contrariamente al mondo dell’arte, dove per esempio abbiamo un Philippe Daverio o uno Sgarbi…
Il critico da noi è sempre stato visto come un qualcosa di vicario, non specialista, e il suo ruolo è stato attribuito a scrittori e umanisti come Moravia, che tra l’altro scriveva di cinema molto bene. Altrove è richiesta una competenza specifica riguardo alla settima arte; in Italia di solito chi recensisce film può essere anche un appassionato, cioè uno che fa un altro mestiere e si dedica saltuariamente alla critica. Poi certo, se un film parla di politica americana, magari lo si fa recensire dal corrispondente estero: in questo caso il critico non è la persona competente, ma la firma o il nome. Ciò dà anche l’idea che il cinema sia un patrimonio comune, una cosa di cui tutti possono parlare, ma come diceva il grande filosofo e appassionato di cinema americano, Stanley Cavell, a me piacerebbe che il discorso comune sul cinema, e il discorso specialistico sul cinema, avesse almeno lo stesso grado di competenza che si è soliti attribuire allo sport; e cioè che si parlasse di cinema per la strada con la stessa competenza di chi conosce un dribbling o un fuorigioco. E che sui giornali ci fosse un Gianni Mura o un Gianni Brera della critica.

Come vede l’impatto di internet e delle tecnologie digitali?
Internet può essere utile proprio per approvvigionarsi di cinema. Anche se questo non avviene sempre in modo legale, bisogna riconoscerlo. Per quanto riguarda invece la critica digitale, l’uso delle tecnologie ha un po’ ribaltato la tendenza degli ultimi anni: prima il problema era il conformismo di fondo, cioè il non parlare male di un certo cinema, mentre adesso lo spazio del web ha reso troppo facile fare una specie di critica demagogica e qualunquista. Ci sono dei critici che utilizzano poi entrambi i mezzi, come Goffredo Fofi che scrive su “Internazionale” e sul web, molti hanno dei blog seri. Purtroppo bisogna sapere cosa cercare, perché c’è un po’ di tutto e il contrario di tutto. L’aspetto più inquietante è rappresentato forse dai social network.

È cambiato il gusto dello spettatore negli ultimi anni? Ormai i cineclub e le sale d’essai stanno scomparendo, e spesso l’unico modo per vedere i film è affidarsi alla rete. Questo secondo lei ha determinato la nascita di una generazione di consumatori più sofisticati?
Non so se sia cambiato il gusto, ma di sicuro la formazione, il canone. Intanto la storia del cinema è diventata più ampia: molto banalmente, cinquant’anni fa il cinema aveva cinquant’anni, oggi ne ha cento, e soprattutto è diventato internazionale, globale, molto più diffuso. E poi c’è da dire che un tempo i cineclub e la frequentazione quotidiana delle sale consentivano la conoscenza dei classici. Spesse volte, come insegnante, mi capita di imbattermi in una consapevolezza del cinema che arriva a Tarantino, o poco più indietro. I percorsi nel cinema del passato sono curiosi, strani. Anni fa mi accorsi che nella videoteca più cool di New York la sezione dedicata al cinema italiano comprendeva sostanzialmente i film di genere degli anni settanta, gli horror o i thriller di Umberto Lenzi o Sergio Martino. L’altra cosa, secondo me ancora più grave, è che su internet quello che viene a mancare è, per dirla con gli americani, la serendipity, l’incontro casuale con qualcosa che non ti aspetti. È come se tutto fosse, per così dire, profilato. Se ti piace un film, allora tendi a guardarne un altro segnalato nei suggerimenti, e insomma l’utente rischia di crearsi un suo profilo circoscritto. Mentre invece andare al cinema tutte le settimane, a vedere quello che capitava, ti permetteva di conoscere cose che non ti aspettavi. Oggi è forse più difficile incontrare qualcosa di bello che ti fa saltare i parametri.

 A cura di Marco Marchetti

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