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Io ho paura

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare.

Martin Niemoeller

Sono tempi bui, oscuri; tempi consacrati alla morte, alla dissoluzione del pensiero, alla scomparsa delle idee. Tempi in cui la libertà di confronto si riassume nelle claustrofobiche geometrie del controllo, del confinamento, della reclusione. Tempi in cui, orwellianamente, il bibliotecario e l’esercente di un cinematografo si trasformano in grigi burocrati, anzi in poliziotti, pronti a controllare la validità di un documento, a cassare l’accesso alla cultura, a vietare il prestito di un libro o la fruizione di uno spettacolo. Insomma a tracciare una linea discriminatoria, non più tra chi è ebreo e chi non lo è, o tra chi appartiene a una religione o a un’altra; ma tra chi ha scelto di vaccinarsi e chi no: o addirittura tra chi ha scelto di vaccinarsi e chi ha scelto di vaccinarsi ma senza fare della propria scelta una tessera di partito o un distintivo di appartenenza da esibire a ogni occasione. In barba a ogni logica, in spregio a ogni barlume di costituzionalità, di riservatezza, di rispetto dell’individuo e delle sue fragilità. Come siamo arrivati a tutto questo? Piano, a piccoli passi, accompagnati come bambini, goccia dopo goccia, intossicati profondamente fino al disconoscimento del principio di ragionevolezza. Sono tempi bui, oscuri. Tempi in cui la ragione si infila negli interstizi della paura, e lì ristagna producendo i germi pestiferi della vigliaccheria, dell’omologazione, del pensiero unico e dominante. Tempi in cui l’indagine speculativa è ridotta a un elzeviro in fondo a qualche giornale, a un manifestino scribacchiato da un manipolo di filosofi indigesti. Tempi in cui un Massimo Cacciari e un Giorgio Agamben, autori del breve intervento del 26 luglio A proposito del decreto sul green pass, finiscono per segnalare inconsapevolmente il canto del cigno di un’epoca, quella in cui gli intellettuali ancora rappresentavano il faro della conoscenza e della discussione democratica, e ora sono voce dissonante unica e frammentaria; o peggio zimbello impopolare per la classe politica e il popolo che nemmeno più possiede gli strumenti per capirli. Sono tempi bui, oscuri, come quelli che Damiano Damiani ben rappresentava nel film del 1977 che dà il titolo a questo articolo. Si respira lo stesso senso di straniamento, di indifferenza, come un orrore sottile che resta appena sotto la superficie delle cose, pronto a lacerare l’ordinario svolgimento degli eventi non più attraverso deflagranti attentati, ma con la paranoia della sicurezza, del controllo sociale, della prevenzione. Io stesso, mentre scrivo queste melanconiche righe, ho paura: posso e soprattutto possiamo (dobbiamo?) disubbidire? Ma come, e a chi con esattezza? Ma soprattutto: siamo sicuri di poter dissentire in un paese dove, di fatto, non abbiamo più libere elezioni da una decina d’anni; dove i governi tecnici si susseguono a ritmi vertiginosi; dove chiunque si rifiuti di chiedere o esibire un documento sul proprio stato di salute viene subito bollato come irrazionale, paranoide, complottista? Insomma: dove è ubicato l’odierno centro del potere? Nel Parlamento, nelle televisioni, nei talk show pomeridiani che forgiano nuove strumentazioni comunicative, che plasmano innovativi codici di linguaggio social dove la valutazione dei fatti è riassunta in categorie macroscopiche? Sicurezza come mantra, irresponsabilità come accusa, continuo appello al senso civico di cittadini ridotti a burattini senza cervello, pronti a rinunciare alla libertà di critica pur di non rinunciare alle vacanze. Quale prezzo pagherà la disapprovazione? Sono tempi bui, oscuri, come quelli che Lars von Trier paventava in Epidemic, misconosciuto capolavoro del 1987 in cui, in una distopia da futuro presente, il governo scientocratico sostituiva l’ormai fossilizzata democrazia: l’ortopedico alla giustizia, l’urologo ai trasporti, l’anestesista all’istruzione… Ognuno fa il suo mestiere, nella costituzione di una macchina perfetta dove tutti gli ingranaggi sono al posto giusto e lavorano in sinergia senza che l’arte del dubbio la faccia più da padrona. Sono tempi bui, oscuri, nel cui vuoto ancora riecheggia l’auspicio scelto da Ralph Rugoff per inaugurare l’ultima biennale veneziana: May You Live in Interesting Times. Eppure, nonostante il mio agnosticismo, nonostante la misantropia militante e dichiarata che mi rende alieno a me stesso e agli altri; nonostante tutto questo, voglio ancora credere nell’Uomo: non per molto, forse per qualche attimo, soltanto per ritrovare in uno sguardo il virus dell’intelligenza, della curiosità, dell’opposizione. Voglio tornare a credere, illudendomi, che una biblioteca di pubblica lettura o un cinematografo possa opporsi all’inciviltà, al pass del menefreghismo che si nutre della paura. Cinematografo: scrivere attraverso il cinema, creare mappature nuove, dissonanze, asimmetrie. Riformulare l’immaginario e consacrare il tempo delle e alle idee…

Marco Marchetti

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