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The Irishman

the-irishmanPerché The Irishman dovrebbe essere il testamento di Scorsese? Batta un tasto chi non ha sentito o letto qualcosa del genere a proposito dell’ultimo film del settantasettenne regista newyorkese. L’armamentario di certi critici si è ridotto a pochi utensili da cucina, se è vero che sulla base di qualche ingrediente ricorrente si tenta di semplificare una ricetta che invece richiede tempo e impegno. Questo The Irishman è un piatto impegnativo. Di certo è un film fondamentale nella cinematografia di Scorsese e, probabilmente, è destinato a diventare uno di quei testi da sviscerare nelle scuole di cinema. Ma ai testamenti artistici non ci credo, troppo perentori, troppo definitivi, talvolta senili e saccenti. Scorsese ama il cinema e fare cinema, girerebbe davvero un film testamento? D’accordo: i quartieri italiani, i suoi attori, l’animalesco mondo dei gangster sottratto di ogni fascino e ridotto all’espressione di bassi automatismi, fino a quando il tempo riduce la bolgia a un ridicolo campo da bocce nel braccio geriatrico di un penitenziario di massima sicurezza. La grandezza di Scorsese sta proprio nel ricorrere alla mitologia che lui stesso ha definito da Mean Street in poi, per truccarla con una patinata fasulla, talmente esibita da non correre il rischio che qualcuno pensi a rappresentazioni nuove. Non c’è spazio per la novità in un mondo che reitera meccanicamente se stesso. Anzi, a dirla tutta, si ha la l’impressione di assistere alla irishdismissione di un set: una grande scenografia su carrello che viene rimossa da uno studio cinematografico, portandosi via un intero immaginario, quello dei gangster “alla Scorsese”. Nessun testamento, allora, semmai una riflessione matura su come il tempo logora i generi.
E nemmeno si può affermare che The Irishman sia il film di un vecchio nostalgico, perché al contrario è un’opera possibile grazie all’età del suo autore, alla qualità di un’intelligenza che non ha solo attraversato cinque decenni, ma li ha scavati fino a comprendere i processi storici che hanno trasformato l’America nella seconda metà del Novecento.
Partiamo dallo spunto: l’omicidio del sindacalista Jimmy Hoffa raccontato da un sicario di origini irlandesi, Frank Sheeran. Lo scenario è Filadelfia, Sheeran (Robert De Niro) diventa guardia del corpo di Hoffa (Al Pacino) dopo aver stretto amicizia con il boss Russell Bufalino (Joe Pesci), alla cui famiglia giura fedele servizio. Ma più che la fedeltà e l’amicizia saranno le dure leggi del buisness a definire i destini non solo dei tre uomini, ma di tutte quelle persone che a loro gravitano intorno. Sullo sfondo la politica americana, dai Kennedy in giù, le lotte sindacali, le connessioni con la mafia tentacolare.
Scorsese non firma un’istantanea ma un affresco che guarda allo scorrere del tempo e ai suoi gangster con ironia e senza alcun incanto. Con l’eccezione irishoffadi Hoffa, pescecane senza denti ma capace per anni di nuotare con furbizia tra predatori famelici, padri e padrini sono automi che rispondono alle logiche di guerra e a dinamiche di relazione riassunte in abbracci di circostanza e nelle esecuzioni di rito. Rituali, appunto. Il mondo dei “piccoli cesari” è tradotto in schematismi, uomini come insetti e il regista che li osserva come un entomologo. Ogni esecuzione è il risultato inevitabile di un codice comportamentale basato su regole acquisite, impermeabile alle emozioni; tutti fanno ciò che va fatto, nel rispetto delle gerarchie del formicaio. I comprimari che popolano i tavoli degli affari sono presentati con l’epitaffio che li definisce non per ciò che sono in vita, ma per la data di scadenza che ne determina la morte. Sheeran l’irlandese da veterano si orienta nel campo di battaglia, casualmente conosce Russell, ma non c’è casualità quando si fa scegliere dal boss: è un’elezione vera e propria. Sheeran ha ucciso a sufficienza in guerra e possiede la qualità rara di considerare la morte di un nemico come un dovere marziale: “io eseguivo gli ordini” (vi ricorda qualcosa?).
Scorsese sceglie l’irlandese tra le acque di Little Italy come narratore interno, lucidamente ci intrappola sulla sua imbarcazione e ci traghetta nella livida palude. Non un eroe ma un demonio. La sua maschera è grottesca, come il make-up di Joe Pesci, entrambi ringiovaniti per sembrare finti e ripugnanti. Invano cerchiamo il De Niro di cui abbiamo memoria, quello di quarant’anni fa. Sheeran è ingabbiato nel ghigno meschino della morte. Sembra accorgersene la figlioletta, che tra tutti riconoscerà l’umanità solo in Hoffa, il più autentico. E anche nella vecchiaia, quando l’irlandese cercherà l’indulgenza di un dio minore e il perdono della figlia, il volto di De Niro non si affranca dai solchi che ne descrivono l’esistenza sciagurata. Se Sergio Leone cercava in C’era una volta in America una melodrammatica del gangster anche nei volti anziani dei suoi criminali nostalgici, per cui De Niro godeva di un invecchiamento posticcio che quasi lo proscioglieva dalla vecchiaia (così lontano da ciò che è oggi il corpo dell’attore), in The Irishman il lavoro sul volto è una condanna alla bruttezza, amplificata dalla dilatazione del tempo filmico.


Se ancora Sergio Leone esasperava la durata dell’istante o rimescolava piani temporali, perché il tempo fosse dimensione interiore, percezione parziale degli eventi, collage della memoria selettiva, in ultima analisi motore del racconto (come anche in C’era una volta il west), Scorsese asseconda la narrazione rivedendo il concetto di sincope che ha caratterizzato il suo cinema. Il battito cardiaco di The Irishman è inedito, il respiro a tratti affannoso, anche nelle scene dinamiche. E non potrebbe essere diversamente in questa contro-epica del gangster-movie, che è il ricordo quasi vero di un vecchio. Film di veloce lentezza, le tre ore e mezza di The Irishman si chiudono lasciandoci con l’amarezza che ti prende quando chiudi un romanzo fluviale e ti chiedi perché, dopo seicento pagine, sia già finito.

Alessandro Leone

The Irishman

Regia: Martin Scorsese. Sceneggiautra: Steven Zaillian. Fotografia: Rodrigo Prieto. Montaggio: Thelma Schoonmaker. Musiche: Seann Sara Sella. Interpreti: Al Pacino, Robert De Niro, Joe Pesci, Harvey Keitel, Anna Paquin, Jesse Plemons, Stephen Graham, Bobby Cannavale, Aleksa Palladino, Jack Huston, Sebastian Maniscalco, Ray Romano, Kathrine Narducci. Origine: USA, 2019. Durata: 210′.

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