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KILL BILL. OVVERO, DI GIUNGLE, DI PADRI E DI SUPERPOTERI

Problema: dato un sistema chiuso in cui vige la legge del più forte, in cui la sopravvivenza è concessa soltanto a pochi esseri dotati di superpoteri che come divinità primitive sono in perpetua lotta tra loro, quante possibilità ha questo universo di sfuggire all’autodistruzione? Ipotesi: perché questo universo sopravviva è necessario che un supereroe si sottragga al codice della violenza e diventi un uomo, fragile, insicuro e indifeso, come Clark Kent.

In controtendenza rispetto a tutta una serie di prodotti cinematografici distribuiti nel corso dell’ultima stagione Tarantino sembra considerare il conflitto edipico fondamentalmente irrisolvibile (e senza neanche il beneficio della comprensione reciproca, pur da opposte barricate). Al di là delle apparenze, il rapporto tra Beatrix e Bill è chiaramente riconducibile all’archetipo padre-figlio, per quanto infinitamente arricchito nella sua valenza simbolica dall’identità sessuale della protagonista e dalle conseguenti implicazioni erotiche (esplicitate, per quanto relegate a livello di antefatto). A suggerirlo non è tanto l’episodio del matrimonio, quanto la funzione educatrice svolta dall’uomo, che si completa nell’esperienza “scolastica” presso il grande “maestro” Pai Mei (ed è Bill ad accompagnarla, come un qualunque padre nel primo giorno di scuola del proprio bambino). A suggerirlo è forse soprattutto il titolo, la sua incisività, la sua compattezza sonora: quasi un imperativo assoluto, non riducibile a una singola storia, a un singolo personaggio; quasi una legge universale. Uccidere Bill significa uccidere il padre. Ucciderlo in quanto figura genitoriale, per conquistare lo status di persona adulta; ucciderlo in quanto figura normativa, per poter instaurare una legge diversa.

L’aspetto stilistico più accattivante del film è sicuramente il suo attingere a piene mani a un repertorio di immagini e di situazioni universalmente condiviso (almeno per noi occidentali). Le citazioni si accumulano chiamando in causa tutta la letteratura adolescenziale degli ultimi decenni, senza preclusione di generi o di forme narrative. La scelta non è casuale: da una parte l’evocazione di questo tipo di immaginario diventa particolarmente significativo se consideriamo la storia di Beatrix come un percorso di iniziazione che culmina nel cruciale rito di passaggio all’età adulta; dall’altra parte il regista rivendica dignità a questi generi in quanto strumenti attraverso cui una parte rilevante dell’umanità esprime la propria visione del mondo da una prospettiva “di confine”. Se quello dei cartoni animati è il linguaggio dell’infanzia per antonomasia, nel caso di O-Ren Ishii tale linguaggio non è utilizzato per costruire mondi fantastici, quanto per descrivere una realtà cruda e spietata: l’invasione del mondo infantile da parte del mondo adulto si sovrappone al tentativo disperato da parte dell’infanzia di rielaborare attraverso i propri stilemi narrativi quel mondo.

Quasi tutti gli eroi della nostra adolescenza si muovono in universi che presentano caratteristiche comuni, ed è su questo terreno che la dimensione infantile e la dimensione del padre si incontrano. La vita, ci spiega Tarantino in chiusura, è una giungla: affermazione nient’affatto originale. Se non che questa giungla, nel caso specifico, è quella di Mowgli; o meglio, quella di Kipling: una giungla rigidamente governata da un codice morale inflessibile e imprescindibile, dove la linea di demarcazione tra buoni e cattivi è nitida e profonda, in cui l’azione domina sulla riflessione, perché solo l’azione garantisce la sopravvivenza e perché non esistono ambiguità morali che esigano riflessione. Un universo implacabile in cui ogni offesa deve assolutamente essere espiata affinché si ristabilisca il giusto equilibrio. Una dimensione in cui lo sguardo dell’anglosassone (Tarantino, dopo Kipling) scruta le profondità del pensiero orientale e ne traccia un ritratto che non è più Cina né Giappone ma qualcosa di nuovo scaturito dal confronto con l’occidente, corrotto e decadente (gli unici due avversari che non concedono a Beatrix l’onore del combattimento leale sono quelli più “genuinamente” americani). In questa giungla Bill domina incontrastato, padrone e dio che riassume in sé le due potenze che vi agiscono, quella positiva della forza fisica come forza interiore (di matrice orientale) e quella negativa della violenza come rabbia e frustrazione (di matrice occidentale). Bill è la norma (a maggior ragione se si pensa al richiamo ai Bill of Rights, inglese e americano, che non può essere sfuggita agli anglofoni di entrambi i continenti); è colui che punisce chi cerca di sottrarsi al suo dominio; è colui che muove i fili dell’intero universo (perché l’universo di Beatrix in ultima analisi è quello americano), è colui che reprime ogni tentativo di sovvertire la propria legge; è colui che vuole impedire che il bambino diventi uomo, anzi di più, che il supereroe diventi uomo, anzi meglio, che diventi donna. La femminilità chiaramente non ha alcun valore di genere in sé, non è convocata a dimostrare alcuna differenza qualitativa tra gli esseri umani: la femminilità rappresenta la possibilità di una legge diversa. All’interno del codice ferreo della giungla vediamo agire un sottocodice, che non è imposto, ma ugualmente riconosciuto da alcuni personaggi: la comicità della scena in cui una donna killer attraverso una porta squarciata augura alla sua avversaria, anch’essa killer, una felice gravidanza, nasce dall’incongruenza tra il codice dominante, a cui lo spettatore si è adeguato moralmente, e questo nuovo codice che agisce in controtendenza. È la difesa della vita, la protezione della vita che nasce, contro la distruttività; la difesa dell’innocenza contro l’aggressività; l’impulso di vita contro l’impulso di morte. All’imposizione di questa nuova legge tende Beatrix durante tutto il suo percorso; è questo il senso della frase con cui spiega a Bill: «Dovevo scegliere tra te e B.B. Ho scelto lei»; ed è per questo che, nonostante l’affetto evidentemente ancora vivo, lei non può sottrarsi al compito di ucciderlo.

Quel che resta da verificare, secondo Tarantino, è la validità dell’alternativa: quanto è praticabile la strada della non-violenza nella giungla? Il tema si trascina fin dai film precedenti. In Le iene (titolo ancor più significativo, a questo punto)- i cui protagonisti sono uomini comuni, comuni “lavoratori”, come sottolinea Mister Pink con il suo ossessivo richiamo alla professionalità – il tentativo di introdurre modalità differenti di interazione tra uomo e uomo sfocia nella distruzione totale. In Pulp fiction il gruppo si smembra e se ne seguono le vicende attraverso un complesso intrecciarsi di vicissitudini; la macchina da presa si concentra particolarmente sulla coppia Vincent Vega – Jules Winnfield, che prefigura una possibilità di uscire dal vortice della violenza, ma soltanto a patto di aver immagazzinato una tale dose di esperienza, abilità e saldezza di nervi da poter dominare le situazioni come se gli altri fossero ragazzini alle prime armi. In Kill Bill si parte da un presupposto già molto più impegnativo: per mettersi al di sopra della legge bisogna essere dotati di superpoteri, essere supereroi, per nascita e per formazione. Beatrix chiusa in bagno, mentre la figlia guarda dei veri cartoni animati per bambini, dà il proprio addio alla propria infanzia, avventurosa ed eccitante, abbracciando un orsacchiotto, tra lacrime che sono di dolore e di gioia allo stesso momento. Quando tornerà in camera sarà finalmente una donna adulta, una donna vera. Ha vinto la battaglia: il dio dell’odio è crollato e l’amore per la vita ha trionfato. Eppure…

Eppure il sorriso di Tarantino si trasforma immediatamente in un ghigno. Una donna giovane e bella e una bambina di quattro anni. Lei è stata un killer a suo tempo, ma ora vive in pace, si dedica alla figlia… Suonano alla porta, la donna – è bionda? O è nera? – va ad aprire: un’altra donna come lei, ma con il suo carico di violenza ancora inesploso, le si scaglia addosso come una furia… La storia è circolare, la fine ci riporta all’inizio, a Beatrix che abbandona la casa della sua prima vittima promettendo a una bambina di quattro anni: se un giorno vorrai vendicarti io ti aspetterò. Fuori dalla camera in cui sta abbracciando amorevolmente la figlia sta forse già covando il germe che riaprirà la spirale di violenza. La dimostrazione è dunque fallita. Il problema rimane irrisolto.

Roberta Verdi

(Pubblicato sul n°24 della versione cartacea, settembre 2004)

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