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La collina dei papaveri

Immagini da un Giappone vitale

Dopo I racconti di Terramare, Goro Miyazaki confeziona un’opera convincente ambientata nel Giappone del 1963, un paese in forte crescita. I protagonisti sono due adolescenti, rappresentanti della prima generazione nata appena dopo la fine della seconda guerra mondiale. Umi, quindici anni, vive con la nonna, una sorella più piccola di un anno e un fratello ancora bambino, mentre la madre, insegnante, è spesso fuori dal paese per lavoro; Shun è un sedicenne adottato ancora in fasce da una coppia senza figli. Lui è responsabile del giornale scolastico “Quartier Latin”, che ha la sede redazionale in un edificio attiguo alla scuola, occupato dai giovani per svolgere attività autonome, dalla letteratura agli esperimenti di chimica, dalla filosofia all’osservazione del sole. Tra Umi e Shun sboccia un amore che però non può esprimersi, poiché il ragazzo scopre di essere fratello di Umi, il cui padre è morto in mare mentre prestava servizio. In realtà le cose non stanno esattamente così: la verità è meno complicata.

Il soggetto è tratto da una serie pubblicata negli anni ’80 sul mensile per ragazze Nakayoshi. Ma dietro l’apparente semplicità di un racconto d’amore adolescenziale, il film innesca tematiche complesse sullo sfondo di un periodo storico cruciale per il Giappone post atomico. In piena ricostruzione, in prossimità delle olimpiadi del ’64, il paese descritto dagli autori (Hayao Miyazaki è co-sceneggiatore), sotterrate le macerie e poste le fondamenta della rinascita, si avvia a diventare potenza economica, forte di una società al servizio della ripresa attraverso il lavoro collettivo. La città caotica, non lontana dalla collina dove si erge l’abitazione di Umi, è un enorme cantiere sul cui sfondo dominano ciminiere inquinanti. È il progresso che, nonostante i benefici immediati, mal cela i segni delle metastasi che iniziano ad avvelenare l’ambiente (tema caro alle produzioni Ghibli).
Umi e Shun rappresentano la prima generazione dei nati dopo la bomba, nella seconda metà degli anni 40, quando la radioattività era ancora più che uno spauracchio e la memoria della più terrificante delle tragedie della modernità ancora viva: uomini e donne alle prese con meccanismi di rielaborazione o, più spesso, rimozione, che depositavano nell’inconscio paure forse ancora vive (pensiamo a Fukushima). I giovani protagonisti de La collina dei papaveri sono però decisi a tracciare nell’immediato futuro segni perentori di trasformazione. Ragazzi e ragazze del collettivo, con ardore a volte ingenuo, gridano il diritto alla libertà di pensiero e di iniziativa, professando l’autonomia dall’autorità costituita dei nonni e dei padri (i dirigenti scolastici), senza per questo negarla. O perlomeno è la dialettica che scaturisce dai confronti nelle assemblee di istituto, dove si rivendica l’autoaffermazione nella contrapposizione con i protagonisti della storia recente. Shun ad un certo punto, prendendo la parola, dirà che non è possibile pensare al nuovo senza tener conto della tradizione: ovvero, guardare avanti ma tenere stretti i legami con il passato, in cui è custodito il tesoro dell’identità culturale.
Un tema che corre esplicito o suggerito lungo tutto il film. Basti pensare che Umi ha perso il padre in mare (dopo l’affondamento della sua nave) e Shun, adottato, non ha mai conosciuto i suoi veri genitori, pur sospettando che la vera identità del padre possa trasformarlo in fratello di Umi. E nel racconto sono pochi anche gli anziani, soprattutto gli uomini, come se la guerra li avesse inghiottiti tutti insieme. Ma se è vero che madre e padre “funzionano” insieme come collettori tra passato e futuro, non può che commuovere la ricerca di un dialogo con il mare con cui Umi apre tutte le sue giornate, issando le bandiere con le lettere U e W (Buon Viaggio), coltivando il desiderio irrealizzabile di rivedere nel teatro del porto di Yokohama il padre di ritorno dal suo ultimo viaggio. A rispondere invece è Shun, predestinato a Umi, colui che fu salvato dal padre della ragazza. Shun: vero e proprio germe del futuro, leader che spinge il collettivo verso il restauro dell’edificio che ospita gli autonomi (metafora chiarissima) perché diventi sede del “fare pensiero” (si legge su un muro Cogito ergo sum) , ma anche detentore delle qualità maschili indispensabili per un progetto intelligente di domani, perfettamente in sintonia con le qualità femminili di Umi. Lui e lei si ritrovano uno a fianco all’altra perché capaci di leggere il senso delle cose, nascosto dietro un alfabeto simbolico: il mare, il viaggio, le bandiere, un edificio, una fotografia, una poesia, la pittura (Umi riesce a vedere l’invisibile nel quadro di un’ospite pittrice, che dipinge in trance come una medium).
Il piccolo dramma interiore si consuma nel momento in cui i due ragazzi si inchinano alla presunta consanguineità e all’inevitabilità del destino (classico del melò): “Io ti amerò lo stesso, non posso farne a meno”. “Nemmeno io”, risponderà Shun, in odore di amore platonico.
Un’animazione volutamente poco fluida, la linea di contorno netta che ritaglia le figure umane da scenari spesso acquerellati con scintillanti colori primaverili, riportano ad uno stile desueto in linea con l’ambientazione storica. Eppure l’impressione del vero, inseguita dai pixel dell’animazione moderna, si genera e si rigenera inquadratura dopo inquadratura, supportata dal lavoro miracoloso del sound designer (bastino gli scricchiolii dei pavimenti in legno sotto il peso dei corpi), ma soprattutto generata dai moti dell’anima dei protagonisti, avvinti dalla vita nel decisivo percorso di transito dall’infanzia all’età adulta, quando ogni sentimento si compiace dell’eccessivo sentire.
Dopo aver ripulito l’edificio occupato, accanto al graffito “Cogito ergo sum”, qualcuno adesso ha scritto “Cos’è l’amore?”. Nel dolore momentaneo lo scoprono Umi e Shun, ma siccome la vita è spesso tragica, il cinema può scegliere il finale perfetto. E in questo caso significa portare a maturazione un progetto che abbia il sapore della speranza. I due ragazzi sono destinati a vivere insieme sulla collina dei papaveri, di sintetizzare in un affresco definitivo tutti gli elementi che ne hanno segnato la formazione.

Alessandro Leone

La collina dei papaveri

Regia: Goro Miyazaki. Sceneggiatura: Hayao Miyazaki, Keiko Niwa. Musiche: Satoshi Takebe. Disegnatore personaggi: Katsuya Kondo. Produzione: Studio Ghibli. Distribuzione: Lucky Red. Origine: Giappone, 2011. Durata: 91’.

Trailer italiano:  http://www.youtube.com/watch?v=Z3KOa5kpgJc

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