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La morte di Giuliano Montaldo

La prima immagine di Giuliano Montaldo che affiora alla notizia della sua morte (aveva 93 anni) è quella del poeta alle prese con la sua storia personale, con la memoria offuscata, con la vita aggiornata nel rapporto con un gruppo di giovinastri dall’orizzonte altrettanto offuscato: era il 2017, la sua ultima interpretazione come attore in un lungometraggio, il film di Bruni Tutto quello che vuoi. Un’interpretazione commovente, sentita, il suo corpo inquadrato a lavorare come artigiano nell’ordito del film, a impreziosirne il tessuto narrativo.
Da attore Montaldo aveva mosso i primi passi nel cinema dopo una significativa esperienza teatrale sotto la guida di Alberto Lupo e Ferruccio De Ceresa: lo aveva intercettato Carlo Lizzani quando a Genova, città natale di Montaldo, scritturava attori per il suo Achtung! Banditi! (1951).
Arrivato alla regia dopo l’apprendistato nella “bottega” di Gillo Pontecorvo, Montaldo non trova immediatamente i favori della critica e del pubblico, complice due opere, Tiro al piccione (1961) e Una bella grinta (1965), ambiziose, soprattutto la prima, non tanto per complessità produttiva, quanto per i temi trattati. Tiro al piccione andrebbe rivisto oggi, ne coglieremmo la parentela con l’Italia attuale. Coraggiosamente raccontava di un giovane fascista che si poneva più di un dubbio, che non si riconosceva nel fanatismo più spinto, che in una certa misura faceva i conti con un abbaglio. Non fu capito. Mentre fu capito e applaudito quando licenziò quello che forse ancora oggi è il suo lavoro più celebrato, Sacco e Vanzetti (1971), storia vera di due emigrati italiani, anarchici, negli Stati Uniti di inizio secolo scorso. Opera gigantesca, con interpreti eccezionali, Riccardo Cucciolla (Nicola Sacco), premiato a Cannes, e Gian Maria Volonté (Bartolomeo Vanzetti), a cui il regista, subito dopo, volle dare il volto di Giordano Bruno. Personaggi resistenti, evidentemente in linea con le convinzioni politiche di Montaldo, che sulla Resistenza, al fascismo, ritorna nel 1976 con L’agnese va a morire, tratto dal romanzo di Renata Viganò. Con Il Giocattolo (1979), che guarda agli anni di piombo, chiude un decennio che lo consacra tra i grandi del nostro cinema. Ormai è chiaro l’impegno politico del regista ligure, attivo nel decennio più buio del nostro dopoguerra, con opere che condannano l’esercizio del potere per il potere, le sopraffazioni e la prevaricazione delle libertà, l’intolleranza.
Non solo cinema: alla macchina da presa, Montaldo alternò direzioni teatrali e produzioni televisive, una su tutte il Marco Polo, un’opera grandiosa, colossale, andata in onda in otto puntate sulla prima rete nazionale Rai e che vantava attori del calibro di Ken Marshall, Anne Bancroft, Burt Lancaster e John Guilgud.
Sempre attento alla temperatura del suo paese, Montaldo chiuse la sua avventura da regista dodici anni fa con L’industriale, ancora un film di impegno civile, capace di guardare con lucidità alle trasformazioni che attraversano l’Italia. La sua macchina da presa, come lente di ingrandimento.

A.L.

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