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L’ultimo respiro

Fino all’ultimo respiro è un film che mi piace molto. Lo uso sempre per spiegare agli sparuti frequentatori delle mie conferenze che cos’è il cinema d’autore. E mi piace talmente tanto che non l’ho mai visto fino alla fine. Raggiungo i primi quaranta minuti e mi fermo. In realtà non mi piace affatto, non mi è mai piaciuto. Ma Godard con quel film ha tracciato un piccolo spartiacque nella storia del cinema, categorizzando quel che lui, da anarchico della forma e nella sostanza, non avrebbe mai voluto categorizzare: la Nouvelle vague, forse la corrente più sopravvalutata della settimana arte, che d’un tratto, grazie e per colpa di questo regista, ha condannato alla damnatio memoriae tutti gli altri che ad essa si opponevano o da cui preferivano tenersi a distanza. Claude Autant-Lara, Maurice Pialat, Henri-Georges Clouzot, tutti o quasi ridotti ad anonimi carneadi…

Ma è attraverso il suo sguardo se ho capito a cosa (non) serve la critica cinematografica: i film non devono piacere per forza. Anzi, vale ancora quell’asserzione per cui se una pellicola piace a tutti, non può essere né bella né interessante, e se la pellicola si rivolge a pochi estimatori, allora acquisisce fascino. In altre parole, il cinema si dà come perenne mutazione di se stesso, perché muta il nostro sguardo come cambiano e si adattano gli sguardi dei registi al mondo che tentano di spiegare. Godard è stato, almeno in questo, insuperabile: sapeva che il modello cinematografico era ed è instabile per sua natura, diremmo noi contemporanei fluido proprio come le teorie sul gender. E da tale consapevolezza ha sempre mosso la concezione dei suoi film, impalcature sperimentali che proponevano una profonda riflessione sulla società a partire da uno spostamento di sguardo.

L’insopportabile Fino all’ultimo respiro ne rappresenta forse l’almanacco compiuto: Jean-Paul Belmondo guarda in macchina e parla direttamente con il pubblico in una palese violazione di ogni codice deontologico cinematografico. E più avanti l’orrore si ripete: Godard accompagna la passeggiata dell’attore feticcio con una carrellata all’indietro; Belmondo procede in direzione della macchina da presa, e i passanti tutt’attorno, che proseguono in direzione opposta, si voltano incuriositi per sbirciare il set. Il loro sguardo meravigliato incrocia il nostro occhio esterrefatto, mediato dalla visione scanzonata e compiaciuta di un regista che, in un certo senso, non ha mai fatto nulla prendendosi sul serio. Ignari di essere stati coinvolti come comparse in una pellicola, i suoi attori e non-attori demoliscono inconsapevolmente la concezione ontologica del cinema stesso, offrendo non più la manifestazione inscenata di una possibilità, ma una molteplicità di sguardi che tangono la realtà e la rimettono in discussione.
Oggi sono pochissimi i coraggiosi che si sono spinti fino a questo limite, all’oltraggio della forma, alla rivalutazione dei principi fondanti del cinema. Uno è senz’altro Lars von Trier, un altro David Cronenberg che nel suo ultimo lavoro, Crimes of the Future, si dedica all’enunciazione di una nuova antropologia, uno gnosticismo della conoscenza iniziatica che parte dallo sguardo cinematografico per farsi sguardo sull’Uomo. Eppure è sempre da lì che tutto comincia, da Jean-Luc Godard, dalle sue intuizioni, dal suo approccio al cinema, alla vita, all’evoluzione della comune coscienza.

Marco Marchetti

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