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Manodopera

Interdit Aux Chiens et Aux Italiens

Tra Oppenheimer e Barbie vince Manodopera, uno dei film più belli della stagione, un piccolo gioiello in stop motion realizzato in piena emergenza Covid da un manipolo di persone sotto la guida di Alain Ughetto, discendente di una famiglia di italiani emigrati in Francia a cavallo tra Otto e Novecento.

Per arginare la condizione di estrema povertà in cui vivevano, gli antenati del regista, nativi della Borgata Ughettera, una frazione di Giaveno ai piedi del Monviso, furono costretti come tante altre famiglie a valicare il confine francese in cerca di occupazione. Italiani disposti a qualsiasi tipo di lavoro, si intende, non operai specializzati, ma semmai da specializzare, gente volenterosa, resiliente, diremmo oggi, capace di sopportare grandi fatiche in cambio di salari miseri.
Alain Ughetto torna a Giaveno per interpellare Cesira, la nonna defunta, nell’unico modo possibile, ricreandola amorevolmente con le proprie mani, soffiando nella plastilina, come fosse un demiurgo, per animarla, darle voce e permetterle di raccontare la storia della sua famiglia, incalzata dalle domande di un nipote adulto con la curiosità di un bambino. Quella del regista, attraverso Cesira, è la ricostruzione di un pezzo di storia italiana, quando gli italiani ancora non s’erano fatti, e il senso di Patria era un concetto astratto, anzi, di Patria si sentiva parlare quando arrivavano le lettere d’arruolamento per la guerra e bisognava inventarsi d’essere soldati, tenere un fucile malfunzionante in mano, andare a morire senza conoscerne le ragioni.
Manodopera è storia degli ultimi, di migrazioni forzate verso mondi per nulla ospitali, a piedi lungo le dorsali alpine e pericolose, centellinando pochissimo cibo. Il viaggio come sopravvivenza, noi ieri come gli altri oggi (e dovremmo tutti vedere Manodopera e, subito dopo, Io capitano di Garrone), raccogliendo le forze per alimentare sogni e speranze, ben riposte nel vigore delle proprie braccia, confuse spesso con le menzogne: i miraggi americani, monete come frutti succosi sugli alberi, galline grandi come vacche, il Nuovomondo in cartoline iperboliche, strade lastricate d’oro, che invece poi avrebbero lastricato col catrame proprio gli italiani: la manodopera a buon mercato, i bifolchi, gli ignoranti, gli indesiderati. Invisi anche oltralpe, Interdit Aux Chiens et Aux Italiens, come recita il sottotitolo, che non è un’allegoria ma l’emblema di una condizione sub-umana a cui erano ridotti i nostri antenati.

Ughetto mette carne e anima nelle sue figure in plastilina, così da farci dimenticare che sono pupazzi di venticinque centimetri, che ambienti chiusi e paesaggi sono costruzioni di fine carpenteria. Ogni passaggio di questa epopea commuove per realismo, una verità che non ha bisogno di sotterfugi narrativi spinti sul sentimentalismo: la gioventù del nonno Luigi e dei suoi fratelli, il suo sguardo che incrocia Cesira poco più che ragazzina, il loro matrimonio, la prima di altre gravidanze, sono la calce di un edificio familiare che sarà attraversato dalle tragedie della grande storia, la chiamata in Libia, poi la Grande Guerra, l’arrivo dei fascisti, e che, nonostante perdite dolorose, reggerà alle violenze del 900.
Ma non si pensi a un film dai toni cupi. Il dramma è stemperato dalla vitalità naturale di ogni personaggio, dalla poesia mista all’ironia della messa in scena (enormi ortaggi che si fanno abitazione, un prete arraffone che attraversa le nuvole per calarsi nel cuore del proletariato), dalla voce calda donata a Cesira da Ariane Ascaride (musa di Robert Guédiguian), dalla capacità di Ughetto di invitarci confidenzialmente nell’intimità della sua famiglia ed empatizzare con gli occhi sempre stupiti di Luigi davanti alle gioie come ai dolori.
Ed è magia pirandelliana quella del regista che, improvvisamente nel vivo della scena con la propria mano, scommette sulla finzione esplicita per restituirci l’intensità di un realismo quasi verghiano: di tanto in tanto allunga un oggetto a Luigi o a nonna Cesira, come faceva umoristicamente Cavandoli con la sua Linea animata. Quì però è un esserci emotivo, partecipe, la mano di un lavoratore che ha costruito il mondo epico dei suoi avi come fosse un operaio della memoria: manodopera nel film e per il film, ma anche un sorprendente gioco autoriale per reiterare all’infinito, ad ogni proiezione, il racconto delle proprie radici chiuso con una frase di Cesira che da epitaffio si trasforma in progetto: “Non appartengo al mio paese, ma alla mia infanzia”.

Alessandro Leone

Manodopera

Regia: Alain Ughetto. Sceneggiatura: Alexis Galmot, Anne Paschetta, Alain Ughetto. Fotografia: Fabien Drouet, Sara Sponga. Montaggio: Denis Leborgne. Musiche: Nicola Piovani. Voci: Ariane Ascaride, Alain Ughetto, Stefano Paganini, Diego Giuliani. Origine: Fra/Ita/Sviz/Port, 2022. Durata: 70′.

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