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SPECIALE Io Capitano

Leone d'Argento a Venezia

L’odissea contemporanea di Matteo Garrone

Dei sei i film italiani in Concorso quest’anno a Venezia, quello di Matteo Garrone era il più atteso, soprattutto per il nome di un regista che ha realizzato alcune delle opere più significative del nostro cinema contemporaneo.
Io Capitano nasce dall’idea di raccontare il viaggio dei due giovani migranti senegalesi, Seydou e Moussa, che attraversano l’Africa, con tutti i suoi pericoli, per inseguire un sogno chiamato Europa. Un’Odissea contemporanea attraverso le insidie del deserto, gli orrori dei centri di detenzione in Libia e i pericoli del mare.
Il film è stato molto dibattuto durante la Mostra e ha avuto molti estimatori ma altrettanti detrattori, tra quest’ultimi per molti è un film troppo didattico, per altri troppo favolistico, per altri ancora addirittura sbagliato. La Giuria, capitanata da Damien Chazelle, è evidentemente stata dalla parte degli estimatori, poichè ha assegnato il Leone d’Argento per la miglior regia a Garrone e il Premio Mastroianni come miglior attore emergente al protagonista Seydou Sarr.

A nostro avviso Garrone sembra essere tornato all’essenzialità dei suoi esordi, è un film molto diverso dai suoi ultimi, meno portato alla ricerca dell’immagine, ma molto incentrato sul viaggio di formazione dei due giovani protagonisti che li vede percorrere tantissime strade e incontrare tantissime persone.
Per realizzare il film Garrone ha raccontato di essere partito dalle testimonianze dirette di chi ha vissuto questo inferno. Io Capitano punta all’innocenza e all’ingenuità dei due ragazzi che riescono in qualche modo a sopravvivere al male che incontrano. Per questa ragione quello che vediamo sullo schermo è lo sguardo di chi fa il viaggio, non quello di noi europei verso di loro. In tutto il film la macchina da presa è dalla loro angolazione per raccontare questa odissea dal loro punto di vista, in una sorta di controcampo rispetto alle immagini che siamo abituati a vedere dalla nostra angolazione occidentale.

Io Capitano è un film importante, è cronaca ma anche favola, lo sguardo di Garrone non è estetico e non punta alla retorica e alla facile commozione, soprattutto nella prima parte sembra fare un passo indietro rispetto al suo modo di girare, per questo assomiglia ai suoi primi film. È uno sguardo consapevole e etico, quasi didascalico per certi momenti, ma necessario per offrire allo spettatore la visione di una realtà per la prima volta svelata dal cinema attraverso due protagonisti che conquistano per la loro purezza e vitalità.

Claudio Casazza

Un Leone d’Argento che luccica come oro

Crediamo di sapere già tutto sui migranti africani (e non solo) che vengono verso l’Europa. Altre volte scegliamo di saperne il meno possibile. Difficilmente facciamo diventare volti queste persone, per lo più ci trinceriamo dietro slogan, ci facciamo prendere dalla commozione facile e breve quando accadono tragedie che non si possono ignorare. Molto spesso brandiamo numeri che a volte dicono poco.
Il cinema spesso in questi decenni ha provato a raccontare il fenomeno, basti pensare a Lamerica di Gianni Amelio, Fuocammare di Gianfranco Rosi o Tolo tolo di Checco Zalone, che l’hanno affrontato con approcci (e intenti) molto diversi. Matteo Garrone con Io capitano si è cimentato con un tema molto rischioso scegliendo una modalità quasi inesplorata, quella della fiaba e dell’avventura. Il regista di Gomorra, Reality, Dogman e Pinocchio ha raccontato l’avventura di due adolescenti senegalesi, molto realistica ma pure astratta e con tratti di fantastico, come in un romanzo d’altri tempi con una realtà trasfigurata. Una scelta che non poteva naturalmente trovare tutti concordi, ma ha fruttato il Leone d’argento per la miglior regia e il premio Mastroianni per il miglior interprete emergente al protagonista Seydou Sarr. Forse avrebbe meritato il Leone d’oro, ma questi riconoscimenti sono un bel viatico anche per portare al pubblico un film che, con una scelta una volta tanto coraggiosa, entra nelle sale in lingua originale con i sottotitoli.

Per mesi il sedicenne senegalese Seydou ha lavorato con il cugino Moussa accantonando soldi per raggiungere l’Europa: compone canzoni e il suo sogno è diventare un artista famoso e “firmare gli autografi ai bianchi”. Senza dire nulla alle madri, i due ragazzi salgono su un autobus e lasciano Dakar per affrontare la rotta che attraversa il Sahara fino a Tripoli. Il percorso sarà costellato di tappe e di incontri, con il protagonista che quasi veste i panni di Pinocchio (non a caso il precedente lungometraggio del regista romano) e il cugino quelli di Lucignolo: il paese dei balocchi li dovrebbe attendere al di là del mare, sebbene gli adolescenti siano ben consci dei pericoli. Con la spensieratezza e la spavalderia dell’età, i due accettano i rischi e si buttano verso l’ignoto. Troveranno chi cerca di imbrogliarli, autisti crudeli, guardie corrotte, banditi, mercanti di schiavi, ma pure persone di cuore, che li guardano con gli occhi di un padre. Questi personaggi sono funzioni, non sono sviluppati (ma non restano neppure macchiette): pretenderlo sarebbe come chiedere l’approfondimento psicologico di un orco o di una fata o di un cocchiere delle fiabe.

Garrone non è interessato a distinguere i buoni dai cattivi, non vuole spiegare la realtà dei Paesi africani o i meccanismi delle migrazioni, non si sofferma su ciò che è già nelle cronache, ma si concentra sulla parabola umana dei suoi personaggi, con una maniera più coinvolgente ed emotiva rispetto ai suoi lavori precedenti, pur senza calcare troppo sul sentimentalismo. Il regista, che ha scritto la sceneggiatura con Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini e Andrea Tagliaferri, si concentra sull’essenziale, non mette nulla di inutile, solo elementi che torneranno al momento giusto, incastrati alla perfezione dentro una traiettoria che pare lineare.
Nella carriera iniziata con Terra di mezzo nel 1997, il regista ha dimostrato di saper coniugare il realismo (e anche l’iper-realismo) con il fantastico e l’orrore, e qui porta a compimento questa capacità in un racconto dalle tante sfumature, dove compaiono il magico dell’Africa, l’incubo dei centri di detenzione e le condizioni al limite delle imbarcazioni. Il film non fa dichiarazioni politiche esplicite, ed è la sua forza il riuscire a emozionare senza ricatti sentimentali assistendo quasi a un’avventura sentimentale. Garrone si affida solo alla forza delle sue immagini bellissime, delle luci colte con grande incisività, di personaggi ben delineati e trascinanti e una colonna sonora da ascoltare e riascoltare. Qualcosa a cui ripensare resta, come il concetto di “scafista”, che viene qui un po’ ridefinito. Io capitano, il cui titolo si chiarisce al termine della visione, è un romanzo di formazione nel quale si appende il significato della responsabilità. Seydou e Moussa si muovono in una folla di volti anonimi ma non indistinti, che compongono un coro e le cui storie in fondo confluiscono in quelle dei protagonisti. Le cose sono viste secondo il punto di vista dei ragazzi, che sono interessati a sopravvivere e ad arrivare a destinazione. Garrone filma un’avventura ammantata di universalità con il respiro del grande cinema, così l’opera assume i connotati del capolavoro, soprattutto per la parte del deserto, dove il vero miraggio è salvare una donna che non ce la fa più ed è rimasta indietro. Se uno scopo del cinema è scoprire la realtà con occhi nuovi, Matteo Garrone lo sa fare come pochi.

Nicola Falcinella

La morte sullo sfondo

La macchina da presa di Matteo Garrone sembra tornata alle frequenze di Terra di mezzo Ospiti (che tra l’altro, girati sul finire degli anni 90, sarebbero da rivedere per capire il nostro presente). La discrezione e il rispetto con cui il regista si insinua nello spazio intimo dell’abitazione di Seydou, le inquadrature che lo colgono in confidenza con sua madre, lo sguardo da documentarista con cui racconta il sobborgo di Dakar, le brevi sequenze dedicate al lavoro dei due cugini e futuri viaggiatori, sono elementi coerenti con quella prima idea di cinema, macchina da presa come dispositivo a servizio della realtà, mai spettacolare, mai artificioso nel senso della ricerca della sofferenza a tutti i costi o della commozione del pubblico, quindi mai ricattatorio.
Un approccio etico a cui il regista romano non rinuncia in questo lavoro premiato a Venezia, che probabilmente incontrerà i favori del pubblico, ma che, in certi frangenti rischia la didascalia, dove la preoccupazione in sceneggiatura sembra quella di raccontare tutte le tappe dei gironi infernali, certo, attraverso gli occhi di Seydou, ma dove la morte, quella che piomba all’improvviso nel Paese dei Balocchi sognato dai due cugini (sarà un caso che Seydou e Moussa all’inizio sembrino proprio Pinocchio e Lucignolo?), si perda sul fondo dell’inquadratura: un migrante che cade dal veicolo che attraversa il deserto; sia un dramma che si tinge di magia: la donna che ancora nel deserto muore tra le braccia di Seydou e che poi lui immagina di liberare in volo come fata turchina protettrice; oppure venga evocata dalle torture barbare nelle prigioni libiche, dove lì sì, il regista si impone giustamente di aggirare qualsiasi morbosità della visione.

Il realismo magico, che in Garrone significa coincidenza con la fiaba, che in alcuni momenti entra nel racconto non è però incisivo come in altre occasioni. In Reality si innescava per descrivere lo stato psicologico (allucinato) del protagonista, e funzionava. Dopo Il racconto dei racconti e la sua versione di Pinocchio le visioni di Seydou sembrano tutt’altro che portarci ad una fiaba moderna nerissima. Nemmeno il finale (lieto?), con il miracolo del giovane “capitano”, nemmeno la comparsa altrettanto miracolosa di Moussa, che semplicemente spiega di essere scappato da uno dei centri di detenzione in Libia, di cui resta semplicemente la voglia del cugino di tornare indietro, scioccato da un’esperienza che in pochi riescono a raccontare.
Il controcampo è l’informazione faraginosa dei nostri telegiornali, gli approfondimenti per pochi di chi quelle rotte le ha documentate (Fabrizio Gatti su tutti). Preoccupato di un approccio etico che evitasse di scadere nel patetico, Garrone rischia di anestetizzare la tragedia che da anni si consuma in quei deserti, in quelle prigioni, in quei mari, e, aderente al punto di vista di Seydou (bravissimo il giovanissimo Seydou Sarr) e Moussa, non ci concede di guardare i visi e gli occhi dei loro compagni di viaggio, che invece custodiscono altrettante storie di povertà e di sogni mancati.
Mancava sicuramente un film che potesse dare rappresentazione visiva a questi infernali viaggi della speranza, ma non dimentichiamoci che il regista sta scommettendo sulla capacità di noi, spettatori, di cercare in ogni inquadratura ciò che è meno a fuoco e che meno ci piace, che anzi potrebbe causarci maggiori sofferenze. Lì c’è molta della sostanza del film, dove il nostro occhio non riesce a vedere.

Vera Mandusich

Io Capitano

Regia: Matteo Garrone. Sceneggiatura: Matteo Garrone, Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini, Andrea Tagliaferri. Fotografia: Paolo Carnera. Montaggio: Marco Spoletini, Andrea Farri. Interpreti: Seydou Sarr, Moustapha Fall, Issaka Sawagodo, Hichem Yacoubi, Doodu Sagna, Khady Sy, Venus Gueye. Origine: Italia/Belgio, 2023. Durata: 121′.

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