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Pleasantville e la Macchina Infernale

Dicevano che il treno, con la sua innaturale velocità, era una creatura del demonio più che la diretta conseguenza della scoperta della macchina a vapore; dicevano pure, ed erano passati ottant’anni, che quelle foto in movimento su una superficie chiara e parevano uscirne fuori erano un’indecenza diabolica, più che il frutto della grande forza d’astrazione tipica dell’uomo; più che il matrimonio perfetto tra tecnologia e desiderio di cogliere la quintessenza del nostro essere al mondo: cioè il fluire, il trascorrere. Se Lucifero ne fosse stato davvero l’artefice, lo sarebbe stato in quanto etimologicamente portatore di luce; quella capace di dare movimento ad una realtà interpretata fino ad allora solo attraverso le arti figurative propriamente dette.

Dopo un processo durato quasi quattro secoli (basti sfogliare i testi sulla splendida storia del precinema), si capisce che la “macchina” non è stato un parto casuale del positivismo nel fervore ottocentesco. Non la ricerca di un intrattenimento popolare da alternare al circo o ai carrozzoni degli orrori. Probabilmente più di ogni altra invenzione, la “macchina” è sempre appartenuta all’uomo e non aspettava che tempi e modi per concretizzarsi e dimostrare una verità che gli appartiene: la realtà è strettamente interconnessa con la fantasia. L’universo incredibile che ha raccolto e sviluppato le nostre pulsioni, la nostra fecondità creativa, il nostro immaginario, si è svelato altrettanto reale, tangibile, quasi fisico, proprio attraverso il cinema, che ha sfogato all’esterno una galassia che si accavalla e sovrappone a quella dei sensi, ampliando le nostre percezioni. Così la fantasia elaborando l’impossibile ha reso possibili i sogni e i meccanismi di trasmutazione degli stessi. E’ logico che l’uomo creatore del magico meccanismo se ne serva per proiettare tutto, compresi i tentativi di attraversare la soglia bianca, di entrare cioè nella “macchina” stessa quale ultima frontiera.

Da quando l’arte si è fatta cinema, prima Buster Keaton con Scherlock Junior ha innescato esplicitamente la dialettica proiettando se stesso in sogno dietro lo schermo (se il cinema è onirismo, il cinema nel cinema non può che essere sogno nel sogno), poi Allen ha “esploso” i personaggi  di La rosa Purpurea del Cairo in un quartiere newyorkese, inscenando un attraversamento sconcertante dello schermo in entrambi i sensi; in seguito la porta di servizio televisiva si è spalancata alle terribili suggestioni di Poltergheist e Nightmare, al telesesso di Videodrome, e la botola nascosta del cyberspazio si è aperta al virtuale del Tagliaerbe, di Nirvana e Johnny Mnemonic, a suggerire meccanismi più violenti di inglobamento da parte della “macchina”.

Se in generale con l’arte l’uomo ha trasfigurato l’universo dentro e fuori se stesso, con il cinema ha costruito una mitologia comune a qualsiasi latitudine, un Pantheon dove nulla è impossibile, diviso da quella che definiamo realtà da un sottilissimo filo che è difficile capire se si trovi in sala, dietro il telo, nella cinepresa o dentro lo spettatore.

Così Pleasantville di Gary Ross raccoglie le esperienze mettendo in scena un sequestro, non tanto della “macchina” nei confronti dell’uomo, ma dei desideri inconsci dell’uomo nei confronti di se stesso, dove la “macchina” è mezzo attraverso cui l’inconscio opera e, al contempo, immenso paese delle meraviglie. Nello specifico la televisivamente perfetta cittadina di Pleasantville, in cui vengono risucchiati due fratelli, costretti a recitare i ruoli di Bud e Sue (“veri” fratelli a Pleasantville) e che gradualmente, in virtù della loro umanità, riescono a modificare la natura stessa del (non)luogo.

Cosa aggiunga realmente di nuovo alle esplorazioni passate il tentativo di Ross è indubbiamente la sensazione che l’uomo possa davvero conquistare la dimensione di cui è demiurgo ed esserne partecipe, riscrivendo le “leggi fisiche” di questo altrove meraviglioso a cominciare da una sconcertante bicromia, per dipingervi poco alla volta i colori della vera carnalità, in un’opera di reale modellazione dall’interno. La metafora di questa progressiva colorazione non è casuale che sia espressa da Jeff Daniels, personaggio che, nel nostro immaginario, appartiene a buon diritto al “creato in celluloide” e che ormai non ci interessa nemmeno più sapere se abbia un corrispettivo nel nostro mondo. Lo avevamo lasciato esploratore, lo ritroviamo barista. Dettagli, poiché lo spirito è immutato: se dal Cairo difendeva la libertà di varcare la soglia magica/infernale a piacimento, a Pleasantville difende la libertà di acquistare un’identità sul modello del mondo “reale”. La posta in palio è la stessa: il diritto alla carnalità. In tal senso la scoperta (che per il barman/Daniels sappiamo essere una riscoperta) è un’esperienza pregna di sensualità autoerotica, in quanto è messa a fuoco (e in scena) una parte intima e celata di se stessi. E’ la sensualità del colore che dipinge i grigi o forse dei grigi che si sciolgono al calore delle emozioni autentiche, offrendo il campo al cromatismo luminoso, in un eccitante gioco fotogenico di accostamenti. I fardelli più ignobili quali l’intolleranza razziale, la cattiveria e l’istinto violento, che porta con sé il divenire uomo, trasformando l’idilliaca cittadina in un autentico campo di battaglia, sono il prezzo da pagare se questo comporta allargare i confini di un paese delle meraviglie che non conosceva che se stesso. Per cui una strada percorsa in linea retta che prima riconduceva incredibilmente al punto di partenza, diventa improvvisamente un ponte, un’arteria dove far fluire fisicamente il desiderio di scoprire altri luoghi, di muoversi realmente in uno spazio sconosciuto ma finalmente vitale.

Il processo è così sublimato e comprendiamo, forse con un pizzico di invidia, la scelta di Jennifer/Sue di rimanere al di là dello schermo realizzando il “miracolo”. Almeno per lei, divisa dal buio delle nostre poltrone, da un telo bianco di distanza, in attesa che il “demonio nell’uomo” ci soccorra ancora con l’ennesima macchina infernale.

Alessandro Leone

(Pubblicato sul n°11 della versione cartacea, novembre 1999)

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