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Pordenone: le Giornate del cinema muto 2023

Si conferma come un festival tra i più importanti a livello mondiale

Se le Giornate del cinema muto di Pordenone sono il paradiso di chi ama la Settima arte, l’abbinamento tra un film di Charlie Chaplin e uno di Buster Keaton rappresenta l’empireo. È proprio con la combinazione da sogno di The Pilgrim (1923) e Sherlock Jr. (1924, conosciuto in Italia come La palla n. 13) che si è chiusa festosamente la 42° edizione, dando già appuntamento al 2024, dal 5 al 12 ottobre.
I due film sono stati proiettati nella serata finale con l’accompagnamento dal vivo dell’Orchestra da camera di Pordenone diretta da Ben Palmer. Il primo con le musiche originali di Chaplin arrangiate da Timothy Brook, il secondo con la nuova composizione dell’olandese Daan Van den Hurk.

 

I più grandi della comicità, e non solo, con pietre miliari della loro carriera, opere che hanno pure vari punti di convergenza e trovate che si somigliano. In questo caso vince ai punti Keaton con un’opera straordinaria, non abbastanza vista ai nostri giorni, ma che ha fatto scuola. È la storia di un giovane proiezionista di un cinema che studia per diventare detective. Un po’ distratto, viene beffato da un rivale d’amore, finché si addormenta in cabina di proiezione e inizia a sognare. Keaton entra nello schermo combinando realtà e finzione in una scena che sarà di ispirazione per Woody Allen per La rosa purpurea del Cairo. Tra le altre idee che sono state poi riprese infinite volte da altri cineasti, ci sono lo sdoppiamento del protagonista e la corrispondenza tra ciò che si vede sullo schermo e la realtà. Mentre tra le gag è da ricordare la lunga scena della fuga seduto sul manubrio della moto.
Appartiene a un genere comico sentimentale anche The Pilgrim, basato su equivoci e ritmo. Chaplin parte da uno spunto classico: un detenuto fugge di galera, si cambia e indossa i primi vestiti che trova, quelli di un prete. E parte su un treno a caso, mentre la sua fotografia, con l’offerta di una taglia, finisce sui giornali. L’uomo scende alla stazione di un paese che attende il nuovo reverendo Tim: per nascondersi si presta alla nuova identità, ma si ritrova in una situazione ingarbugliata tra i fedeli, la giovane di cui si innamora e un ex compagno di cella. Un film che si dimostra attuale soprattutto sul finale amaro, con l’impossibilità di trovare un posto dove stare e un riparo dalla violenza e dalla cupidigia.

Would you believe it?

Ciò che rende unico la rassegna pordenonese è anche il suo limite, ovvero che le pellicole recuperate e proposte sono poi difficilmente visionabili in altre occasioni, se non in rare proiezioni delle cineteche o in eventi particolari. All’estero esistono anche collane e mercati di dvd, mentre in Italia avviene raramente, come pure la programmazione televisiva o su piattaforma.
La comicità è stata un filo conduttore dell’edizione delle Giornate, del resto la risata è forse l’elemento più caratterizzante, puro e riconoscibile del cinema muto.
Would you believe it? (1929) è il terzo e penultimo lungometraggio comico scritto, diretto e interpretato dal britannico Walter Forde. Un po’ debitore di Harold Lloyd e di Charlie Chaplin, l’attore mantiene il suo personaggio di uomo comune un po’ dimesso, caratterizzato da un cappello di paglia. Stavolta è un commesso in un negozio di giocattoli, che combina guai in casa e sul lavoro, fino a perderlo. Il suo sogno è fare l’inventore e progetta un carro armato teleguidato: il caso gli fa conoscere la figlia del ministro della guerra e organizza una dimostrazione del suo mezzo, che però rischia di essere rovinata da una serie di incidenti. Sotto la comicità si può leggere anche un messaggio pacifista e antimilitarista: Forde utilizzò anche un vero carro armato che era stato impiegato nella Prima guerra mondiale.

Nella sezione Slapstick presente anche il francese Reves de clowns (1924) di René Hervouin e Blanche Vigier de Maisonneuve con i celebri clown Fratellini e il loro Circo d’inverno. Un lungometraggio non di puro intrattenimento, perché rimbalza tra la comicità e l’incubo. Gli attori allestiscono come sempre i loro spettacoli quotidiani, ma sotto il tendone una spettatrice triste non ride per i loro numeri, forse troppo presa dai suoi pensieri. Durante una pausa i Fratellini si addormentano in camerino e fanno tutti lo stesso sogno di dover far ridere una sovrana in un mondo immaginario del passato. In questo modo cercano di superare ed elaborare il vero incubo dei comici, non riuscire a suscitare una risata. Il film ha anche valore come rara testimonianza dell’opera dei clown, membri di una famiglia illustre di circensi e attori.

Harry Piel

Importante è stata la riscoperta dell’attore e regista tedesco Harry Piel (non una novità per Pordenone, ma stavolta collocato in una personale approfondita), molto attivo e popolare negli anni ‘10 e ‘20 del secolo scorso per poi finire nell’ombra. Un regista all’avanguardia e innovatore, tanto che il saggio sul catalogo del festival firmato dal curatore Andreas Thein si intitola Regista temerario.
Il suo Das rollende Hotel (1918) si collega alla slapstick vera e propria in quanto è una commedia scatenata, con equivoci, travestimenti e continui scambi di persone. Protagonista è Tom, semplice redattore del giornale Il Cavolfiore, che si ritrova a sostituire la titolare della rubrica delle lettere che è partita per una vacanza. Questa aveva sconsigliato alla giovane Addy, figlia del grossista di verdure Parker, di sposare il signor Johnson come vorrebbe il padre per interesse. Il commerciante pretende che la giornalista cambi opinione e ribalti il consigli, ma Tom, costretto a travestirsi da donna, ama Addy e trama con l’aiuto dello scaltro e ingegnoso amico Deeble. L’albergo viaggiante del titolo è la roulotte, che era di proprietà di un’attrice, nel quale i due cercano di nascondere la ragazza. Tra le scene, si fa apprezzare quella della stazione dall’alto realizzata con dei modellini. E ancora la lunga sequenza in montagna, tra riprese dal vero anche sulla neve ed effetti, con una camminata da funamboli sulle funi della funivia.
Gli equivoci e fughe al limite dell’incredibile erano già nel precedente Das teufelsauge (1914). Una contessa organizza una festa, alla quale partecipano anche i due “re dei diamanti”. Pur nascosto in cassaforte, scompare il prezioso diamante della contessa detto “l’occhio del diavolo” (da qui il titolo del film). L’accusato è Francois, giovane assistente d’ambasciata innamorato della contessa, che è costretto a fuggire. C’è un lungo inseguimento a cavallo che fa tenere il fiato sospeso per la discesa di una ripida scarpata con i quadrupedi. Il sospettato raggiunge Londra sotto falsa identità e da là riesce a ricostruire tutte le tessere della faccenda e incastrare i colpevoli.

Rivalen di Harry Piel

Piel lambisce la fantascienza con Rivalen del 1923. Lo scienziato e inventore Ravello si vede rifiutare un progetto dall’industriale Evans e architetta una vendetta. Intanto Evelyn, la figlia di Evans, è innamorata di avventuriero Harry Peel (Piel stesso), ma il padre è contrario alla loro relazione. Alla festa in maschera nella loro grande villa, nel cui interno c’è una parete a forma quasi di bocca, si incrociano le ambizioni di tutti. La ragazza fa entrare l’amato alla festa con l’aiuto della domestica, mentre lo scienziato (il cattivo un po’ fumettoso della vicenda) riesce a introdurre il robottino, che spaventa gli invitati e compie disastri. È uno dei primi robot dello schermo, anche se di poco antecedente c’è L’uomo meccanico di André Deed che sembra una chiara ispirazione per Piel. Il regista, pur tra qualche lungaggine, mette insieme tanti equivoci e diverse trovate visive, anche ingegnose, come la gabbia per calare nelle acque del fiume lo stesso Peel, che tutti credevano già affogato. Da notare la macchina caduta da un ponte, quasi un segno distintivo del cinema del cineasta tedesco: se c’è un ponte, un mezzo cadrà finendo in acqua.
Era un lungometraggio in sette atti Der mann ohne nerven (1924), ma gli ultimi due sono andati perduti e di essi restano solo alcune fotografie e le didascalie. Piel interpreta il doppio ruolo di Harry, scrittore di successo e avventuriero, e del protagonista del romanzo di successo, che tutti leggono e immaginano, che dà il titolo al film. Un’altra rocambolesca storia di fraintendimenti e fughe, con le scene d’azione che sono le migliori, come quasi sempre nel cinema di Piel. Da notare la scena della mongolfiera con sopra la bella Aud, amata da Harry, che si stacca da terra quando il cavo che la tiene è tagliato da un trenino deviato: buona parte di queste immagini è perduta, ma si intuisce la creatività del regista nel concepire e allestire la situazione.

Hell’s Heroes di William Wyler

Altro momento memorabile delle Giornate la proiezione di Hell’s Heroes – Gli eroi del deserto (1929) di William Wyler, con un sorprendente e commuovente canto natalizio intonato da coro situato in platea tra gli spettatori. Un western che ha avuto più versioni, compreso un remake di John Ford nel 1948, In nome di Dio (Il texano). Tre ladri venuti dal deserto assaltano la banca della cittadina di New Jerusalem. Dopo la rapinano fuggono tornando nelle lande da cui erano venuti, credendo di avere acqua a sufficienza per il viaggio. Trovano però un lago inquinato dall’arsenico, un pozzo che è stato fatto saltare e i resti di una diligenza: su un carro c’è un donna morente che affida a loro il figlio neonato da portare al padre a New Jerusalem. Ma hanno poca acqua, poco latte condensato e tanta paura di finire al cappio, che già nell’inquadratura iniziale era pronto per loro. Un gioiellino folgorante, perfetto nei tempi e nel dosare le emozioni, opera di un Wyler già maturo anche se si affermerà più tardi con La voce nella tempesta, Figlia del vento, Piccole volpi, e poi soprattutto La signora Miniver, I migliori anni della nostra vita, Vacanze romane, La legge del Signore e Ben-Hur.

La madre di Giuseppe Sterni

Tra le “Riscoperte” del muto italiano c’è La madre (1917) di Giuseppe Sterni, costruito un po’ con gli stessi ingredienti de Il fuoco di Giovanni Pastrone con la diva Pina Menichelli di due anni precedente. Emanuel è un giovane aspirante pittore, la cui famiglia gestisce un negozio di panetteria. Al seguito di un pittore affermato, si trasferisce ad Amsterdam dove dipinge la modella Isabella e se ne innamora. Se il giovane vuole soprattutto diventare famoso, la madre possessiva è gelosa del figlio e fa la guerra alla ragazza. Un melodramma un po’ imitativo, a tratti stanco e a tratti più vivace, che mette in scena una sorta di triangolo amoroso. Italia Vitaliani tende a fare un po’ Eleonora Duse, della quale era del resto parente, ma dà vita a una vera cattiva, una madre terribile e invadente che potrebbe trovare un corrispondente contemporaneo in certe genitrici del cinema romeno.

Appartiene alla bella sezione Ruritania, sviluppata su due edizioni e iniziata lo scorso anno, The Only Thing (1925) di Jack Conway. Un film ambientato nell’immaginaria Chekow, capitale del regno di Cechia collocato in un vago sudest Europa. Il re sta per sposarsi con un principessa del nord per ragioni di soldi. Intanto è in arrivo un duca in rappresentanza dell’Inghilterra per il matrimonio, ma questi si innamora a prima vista della sposa. In parallelo il rivoluzionario Gigberto comanda una rivolta popolare contro il per prendere il potere. Tra un equivoco e l’altro si sviluppa un quartetto amoroso, con la principessa nel mezzo.

Tratto da un romanzo dello scrittore e viaggiatore Pierre Loti, cui è stato dedicato un omaggio molto particolare con diversi brevi documentari dei primi due decenni del ‘900, è il bel Pecheur d’Islande – Il pescatore d’Islanda (1924) di Jacques de Baroncelli con Charles Vanel (che si sarebbe fatto apprezzare in tanti film come In nome della legge, Vite vendute, I diabolici) e Sandra Milowanoff.
Siamo nel villaggio di Paimpol, in Bretagna, e Yann è un giovane pescatore che ogni estate va in Islanda con nave la Marie. A una festa popolare balla con Gaud che si aspetta di sposarlo, ma la stagione della pesca sta iniziando. La donna lo aspetta, egli si sente sposato con il mare, non se la sente di legarsi. Finché Yann accondiscende e, ancora una volta, dopo la festa gli uomini riprendono il largo. Anche questo è a suo modo un triangolo amoroso, un classico del muto, lei, lui e il mare. Il paese è sormontato dalla croce delle vedove posta in cima alla collina e là le donne si ritrovano a guardare gli arrivi, a sperare nei ritorni, a piangere e a consolarsi, in alcuni dei momenti più toccanti e quasi strazianti. Jacques de Baroncelli riesce a unire la finzione pura in studio a momenti semidocumentaristici con abilità e sentimento e anche a regalare alcune scene di visioni, come il memorabile incontro con la nave fantasma. Un film sotto l’ala di un fato ineluttabile, magari un po’ dilatato in alcuni frangenti e con un pessimismo, con la disgrazia che aleggia mentre si cerca di guadagnarsi il pane, che fa sembrare roseo pure I Malavoglia, con cui per altro ha diversi punti di convergenza.

Tra espressionismo e realismo è l’ottimo Die Strasse – La strada (1923), una delle opere maggiori dell’austriaco Karl Grune. All’ora di cena, mentre la moglie prepara la tavola, un uomo di mezz’età vede le luci della strada che si riflettono dalla finestra e ne è come richiamato. Uscito all’esterno il protagonista si ritrova nel traffico e nelle luci, nella frenesia della giornata che volge al termine. Nel suo vagare, vede una bella donna seduta su una panchina, la segue in un locale dove c’è una grande festa e si balla. Intanto nella strada si perde anche una bambina, che si separa dal nonno cieco che la accompagna (impersonato da Max Schreck che l’anno prima era stato il Conte Orlok in Nosferatu il vampiro di Murnau). Grune riesce a unire, anche con un impiego interessante delle sovrimpressioni, le bellissime riprese documentarie degli esterni con scene d’interni molto efficaci. L’uomo precipita in una notte folle dove si perde il controllo (per certi versi anticipa il professore de L’angelo azzurro) ed è stato letto come metafora e anticipazione della Germania di lì a poco. Il regista mostra i balli e i giochi di carte, tra gelosie e imbroglioni: una sequenza molto bella con il protagonista sta per perdere tutto e continua, poi si riscatterà, ma affronta bene la dipendenza dal gioco e fa pensare a Il giocatore di Dostoevskij.

Per ultimi, ma non per importanza, vanno citati due rari documentari che vengono dal Sudamerica anche se le copie, uniche a quanto si sa, sono state ritrovate in Europa, una a Praga e una in una casa privata in Valtellina. Era creduto perduto Amazonas, maior rio do mundo (1918) del portoghese-brasiliano Silvino Santos, il primo documentarista dell’Amazzonia. È un film che può essere valutato in modi diversi, pur rivelarsi un po’ deludente se ci si immagina di vedere luoghi intatti prima dell’arrivo dei colonizzatori, anche se si vedono comunità degli indigeni Witoto. Santos ha un sguardo un po’ coloniale, difficile capire quanto consapevolmente, e fa un po’ un catalogo, mettendo di seguito riprese degli abitanti e delle diverse produzioni e lavorazioni diffuse nell’area, come il taglio della foresta e la spedizione del legname, la raccolta del caucciù e i primi trattamenti della gomma, la pesca o le noci.
Si era perduta persino la memoria di La tournée del Genoa Cricket and Football Club in Argentina e Uruguay (1923), testimonianza dell’epica trasferta della formazione che vinse gli ultimi due scudetti rossoblù e ritrovata proprio in concomitanza con il centenario. Nelle immagini, probabilmente mai circolate nelle sale, ci sono estratti di tre partite delle quattro disputate dal Genoa e manca il primo incontro. Ripresa da operatori probabilmente locali e diversi in ogni occasione (lo si nota dallo stile visibilmente diverso), la squadra incontra le nazionali di Argentina e Uruguay e visita il mausoleo di un eroe uruguagio, mentre ampio spazio è dedicato agli arrivi del presidenti delle due Nazioni per assistere ai match e alla presentazione delle formazioni. Le partite sono seguite con una sola cinepresa da bordo campo, davvero una versione pionieristica delle attuali riprese, che si perde i momenti dei goal, tranne di uno. Un film dal grande significato storico, di un calcio che non esiste più e del quale non si hanno che pochissime testimonianze visive e questa è davvero preziosa ancorché parziale.

Nicola Falcinella

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