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Powidoki – Il ritratto negato

il-ritratto-negato-andrzejPowidoki, letteralmente un residuo di immagine, Afterimage: il titolo inglese, aderente a quello polacco, non sovrascrive significati come l’inutile cappello italiano, perché non ci sono nel film ritratti negati, mentre residui di immagini sono disseminati dappertutto, a cominciare dall’immagine riflessa del suo autore. Ecco, in questa ultima fatica del novantenne regista polacco, presentata al Festival di Toronto nel 2016 un mese prima della sua morte, c’è anzi più di un residuo dell’immagine di Andrzej Wajda, perché  Powidoki – Il ritratto negato è il finale coerente di una carriera costellata da opere poetiche e sentite, critiche da un certo punto in poi verso il socialismo reale di ispirazione stalinista; film sempre connessi con la memoria e la storia della sua Polonia, imballata dall’influenza sovietica nel secondo dopoguerra, e dei polacchi, che la loro libertà hanno dovuto guadagnarsela più volte, dal 1918 al 1989.
Il racconto biografico degli ultimi quattro anni di Władysław Strzemiński, artista d’avanguardia e insegnante nella Scuola Nazionale di Belle Arti di Lodz morto di stenti nel 1952, aggiunge un altro segmento significativo di storia patria, attraverso il dramma di un pittore, riconosciuto tra i più grandi della sua epoca, che non ha voluto piegarsi a quella lettura opportunistica e tendenziosa che lo stalinismo aveva fatto del marxismo. E’ l’alba degli anni 50 quando a intellettuali e artisti viene imposta l’adesione incondizionata al nuovo corso, ovvero ad un pensiero unico che non conosca divergenze dai dettami impartiti da Mosca. In particolare l’arte deve rappresentare il popolo, la costruzione di un formicaio dedito al lavoro, rinunciare dunque alla speculazione teorica e alle sperimentazioni delle avanguardie che, negando la funzione ideologica dell’arte nella declinazione del servilismo politico, promuovono la totale libertà creativa. Wajda racconta la resistenza di Strzemiński (un superbo Boguslaw Linda) supportato da pochissimi discepoli, una lotta quasi solitaria di idee fino al martirio. Prima la perdita della prestigiosa cattedra di rnstoria dell’arte, a seguire la distruzione in un museo privato della stanza neoplastica ispirata a Mondrian con le sue opere e quelle della ex moglie, la scultrice Katarzyna Kobro; poi l’invalidamento della tessera corporativa che permette non solo l’accesso alla mensa dei poveri ma anche l’acquisto di colori e tele; infine il divieto imposto a qualunque datore di lavoro di assumere il pittore. Nemmeno la solidarietà funziona più se l’equazione è lavori/mangi, non lavori/muori di fame. Nonostante aver onorato il suo paese durante il primo conflitto gli sia costato una gamba e un braccio, Strzemiński è rubricato tra i nomi scomodi, punito per non aver accettato di funzionare come ingranaggio di una macchina di omologazione sociale. Il trattamento riservato all’artista è in linea (nera) con la sprezzante invettiva contro l’arte definita degenerata dalle dittature e, in particolare, con l’incipit di Opera senza autore in cui tra l’altro si coglie un’eco di Powidoki ad esempio nel servizio che il protagonista del film di von Donnersmarck presta nella rappresentazione della rivoluzione e della retorica legata alla lotta dei lavoratori.
Wajda annuncia il suo racconto nelle scene iniziali: da una parte la dedizione degli allievi, la passione per l’insegnamento del pittore, i suoi pensieri che fluiscono naturalmente e aprono squarci inediti in un contesto bucolico da naturalismo francese, mentre i processi creativi partono dal vero per portare in superficie nuova sostanza. Il soggetto, la luce, l’oggetto, l’occhio che scruta, la mente che sintetizza: “vediamo solo ciò di cui siamo davvero consapevoli” – afferma l’artista. Sono “le immagini residue” che in noi prendono forme diverse e disvelano una materia misteriosa. Poi, subito dopo, una sequenza magistrale: studio del pittore, Strzemiński si prepara a tracciare un segno sulla tela bianca; la luce chiara viene iniettata da un rosso sanguigno, davanti alla sua finestra un enorme telo rosso con l’effige di Stalin annuncia il nuovo corso, la propaganda cancella la tela immacolata, la superficie della creazione (perché la creazione libera diventi un residuo?), Strzemiński con la sua stampella crea uno squarcio che sa di sfida: un taglio che preannuncia la spazialità di Fontana ma che qui ha un valore politico e al tempo stesso etico.


“L’arte ha lo scopo di imporre i suoi diritti sulla realtà” – affermerà più tardi davanti a un funzionario. Il cinema fa lo stesso, lo sanno i registi della scuola di Lodz, della generazione di Wajda, che dalla metà degli anni 50 e per tre decenni hanno guardato al paese tentando in tempo reale letture della storia contemporanea attraverso un cinema di poesia e simbolismi, elaborando quasi un codice cifrato di immagini.
Wajda cammina sui residui della storia polacca, respira vicino a Strzemiński e con il pittore afferma come l’arte rimanga baluardo delle più alte aspirazioni umane e specchio della storia, più che un semplice residuo quando il tempo passa e fa giustizia.

Alessandro Leone

Powidoki – Il ritratto negato

Regia: Andrzej Wajda. Sceneggiatura: Andrzej Wajda, Andrzej Mularczyk. Fotografia: Pawel Edelman. Montaggio: Grazyna Gradon. Interpreti: Boguslaw Linda, Aleksandra Justa, Bronislawa Zamachowska, Zofia Wichlacz, Krzysztof Pieczynski. Origine: Polonia, 2016. Durata: 98′.

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