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Scherza con i fanti

Dopo aver scherzato con i santi, Gianfranco Pannone scherza con i fanti. Scherza ma non gioca, anzi: il dittico del regista napoletano è cosa seria, un tracciato sinuoso sotto l’epidermide del nostro paese, o meglio dei nostri paesi, delle Italie regionali, microcosmiche, marginalizzate poi dai processi storici fino quasi a scomparire, a favore di una forzata omogeneità nazionale delle culture. Se Lascia stare i santi scava nella devozione popolare e nella vitale dimensione del sacro per portare alla luce una nervatura di rituali che ci accomuna, pur nelle colorate declinazioni locali, Scherza con i fanti sposta il significato di devozione dal territorio del sacro a quello profano del militarismo, infarcito di piani retorici che hanno consolidato un’idea di Patria assai astratta solo un secolo fa. Due film gemelli per entrare in confidenza con la parte più intima del nostro paese, quella che custodisce retaggi lontani, paure ancestrali, ma anche vergogne confinate nelle zone d’ombra della nostra storia. Quello di Pannone è il cinema di un archeologo ma anche di un esploratore, che raramente parte da tesi, semmai da ipotesi che possono essere o meno avvalorate nel percorso che lo porta a chiudere un film e a consegnarlo al pubblico, sovente con un carico di dubbi e interrogativi che sopravvivono all’opera stessa.
Scherza con i fanti di interrogativi ne semina tanti, più di quanti ne avesse seminati il film precedente, così carico di folklore e di amore per il mistero che tra peccatori e penitenti individuava un fil rouge tra passato e presente: ovvero, un coadiuvante ancestrale che ancora oggi trasforma gli individui in comunità, in piena contraddizione (forse) con il materialismo imperante. Con Scherza con i fanti Pannone alza l’asticella della sfida. Il tema del rapporto tra italiani e impegno bellico è scivoloso, poiché si presta a letture ideologiche (che in verità non sono mancate già dopo la proiezione alla Mostra del Cinema di Venezia), e perché rievoca pezzi di storia rimossi o riapre ferite non del tutto rimarginate.

L’impianto narrativo del film è costruito su quattro diari di guerra scritti in epoche diverse. Aprono le parole di un militare che vive oggi a Boscotrecase ma che alla fine degli anni ’90 era di stanza in Kossovo, un diario di guerra che si dichiara pacifista almeno nella selettività dei ricordi che affiorano e che privilegiano, tra le altre, l’emozione del rapporto con i bambini kossovari. Sembreremmo brava gente, se non fosse che le guerre ammazzano le coscienze di chi le combatte spesso senza nemmeno conoscerne i motivi. Per questo il registro cambia per contrapposizione, quando, splendido e maledetto, il diario di Carlo Margolfo, un milite lombardo, descrive la strage di Pontelandolfo in Campania appena dopo Unità di Italia. Giustificata dalla repressione del brigantaggio, la testimonianza squarcia il film con un carico di orride nefandezze che lasciano il segno per la chirurgica precisione delle parole utilizzate e una distanza crudele che sarebbe stata propria della letteratura novecentesca. Seguono poi altri due diari altrettanto impressionanti: le istantanee di Elvio Cardarelli, un fante viterbese impegnato nella campagna in Abissinia, e la fierezza orgogliosa di Rosetta Solari, partigiana borghese che ha combattuto sull’Appenino tosco-ligure tanto i nazi-fascisti, quanto i pregiudizi degli uomini che mal digerivano una donna soldato. Centocinquant’anni di storia in poche pagine scritte di getto, per tentare di aprire una riflessione che non torni ancora alle ragioni delle guerre, di chi le ha vinte e di chi le ha perse, ma si allarghi al rapporto che noi italiani abbiamo avuto con le campagne belliche e con la figura del combattente; e perché no, del fascino che un certo immaginario coloniale ha avuto nella nostra cultura, nonostante una prevalente predisposizione al rispetto della vita che le nostre tradizioni attestano.

Le verità dei testi delineano temi e dipingono sfondi, le parole fluiscono intrecciandosi con le immagini, in larga parte attinte all’immenso Archivio dell’Istituto Luce, ma anche girate direttamente da Pannone. Il dialogo tra colonna visiva e colonna audio converge e diverge inaspettatamente, senza un ordito apparente, ma che sia narrazione ricercata si capisce dalla sinergia con altre due componenti sonore: da una parte i suoni di Marco Furlani che ricostruisce ad arte sussulti e scoppi, o soffi di vento su una bandiera ammainata per dare profondità sonora dove non c’è; dall’altra il lavoro di ricerca musicale di Ambrogio Sparagna, sodale di Pannone e a tutti gli effetti coautore del film. Musicista ed etnomusicologo, “archeologo” al pari del regista, Sparagna compone un racconto nel racconto. Ed è anzi difficile, come fu già per Ma che storia Lascia stare i santi, capire se sia la musica a innestarsi nelle immagini o viceversa. Anche quando i brani sono prestiti, ad esempio San Lorenzo di De Gregori o il Magnificat cantato da Lindo Ferretti, la sensazione è quella di trovarsi di fronte a un’opera maniacalmente curata nei dettagli. Pannone e Sparagna affondano negli archivi senza affogare, orientandosi tra materiali frammentati o già precedentemente confezionati. Colpisce la capacità di Pannone di pescare nel patrimonio archivistico italiano – Combat Film, Settimana Incom e altri – entrando nelle immagini come fossero (e forse lo sono) un organismo vivo. Si incunea nella materia filmica con il piglio del readymader che taglia, incolla, trasforma e riporta in vita, creando un flusso di memoria nuovo eppure antico, appeso a un immaginario che credevamo perduto e che invece è latente in tutti noi. Diari, immagini, musiche si aggrovigliano in un congegno narrativo che pone in dialettica miserie belliche ed emozioni inattese. Si pensi al diario di Elvio Cardarelli, che prima si macchia di uno becero razzismo di regime e più avanti si fa struggente, al cospetto dei corpi martoriati degli stessi negri ridicolizzati in precedenza, trasformando la temperatura del film.
Così in questo viaggio sonoro e visivo, di testimonianze infuocate o glaciali, che è Scherza con i fanti, sono proprio le giustapposizioni dei segmenti scelti e di questi con le musiche a variare opportunamente registro, perché il dramma non si impadronisca mai del film e una punta di ironia porti con sé uno spirito più leggero, che poi ci appartiene.

La politica c’entra, certo. C’entra sempre a volercela infilare. Puoi infilarcela tra i santi, figuriamoci tra le divise dei fanti, ma nel film non è mai il movente. Nemmeno sul finale quando sembra aprirsi un altro scenario nelle parole di Ferruccio Palazzoli che, dalla sua abitazione affacciata su Piazzale Loreto, sembra guardare alla storia italiana con il sospetto che sia stata malamente raccontata e poi addirittura rimossa. Forse ha ragione. Forse il segreto di Piazzale Loreto che lui conosce ma non rivela, e che identificherebbe il luogo in cui furono appesi i corpi del Duce e della Petacci, nasconde un mistero ben più inquietante e riguarda la perdita della memoria e, insieme, la manifesta viltà di chi non ha più interesse a raccontare chi siamo stati e dunque chi siamo.
Pannone e Sparagna, per fortuna, hanno ancora il gusto di bazzicare tra le “cose vecchie”, di lustrarle quanto basta e di condividerne i racconti. Chissà che non ci torni la memoria.

Alessandro Leone

Scherza con i fanti

Regia: Gianfranco Pannone. Fotografia: Niccolò Palomba. Montaggio: Angelo Musciagna. Musiche: Ambrogio Sparagna. Origine: Italia, 2019. Durata: 73′.

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