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Si è spento Rutger Hauer, replicante che sognava i Bastioni di Orione

Che l’interpretazione del replicante Roy Batty avesse segnato una svolta nella carriera lunghissima di Rutger Hauer è pacifico, morire però nel 2019 in perfetta coincidenza con l’addio struggente del suo personaggio in Blade Runner è pura coerenza per un attore, soprattutto quando lascia che sia l’arte a disegnare la vita (e la morte). Ci sono film destinati a eccedere al di là dei propri meriti, a entrare nella storia del cinema sorprendendo anche chi quei film li ha messi al mondo. Blade Runner è uno di questi film, capolavoro inesatto, riveduto, corretto, ricorretto, in skynews-rutger-hauer-blade-runnercerca di quadrature impossibili e forse superflue, scheggiato da un inutile sequel che ne ha minacciato l’enigmaticità. E parte di questo enigma lo si deve proprio all’attore olandese, all’interpretazione nervosa, tesissima, del paradosso di una macchina che chiede umanità e, anzi, si fa più umana di un umano. E’ tempo di morire: Roy si spegneva nel 2019, futuro lontano nel 1982 ma – scopriremo – incredibilmente vicino. Film epifania, BR si chiudeva con un monologo indimenticabile e subito cult, a precedere una morte per avvenuta scadenza che commuove ancora oggi come raramente la morte commuove al cinema.
Hauer se ne è andato da replicante, cioè è morto due volte, il 19 luglio e poi adesso, a funerali chiusi, quando la famiglia ne ha dato notizia, morte pubblica dopo quella privata consumata nel silenzio, tanto per non confondere nelle ore immediatamente successive l’uomo con il suo personaggio più noto. Anche perché Rutger Hauer, figlio d’arte, è stato tanti altri personaggi, ha portato valore a decine di altri film. Ne aveva girati circa 170, carriera iniziata nel ’73 diretto da Paul Verhoeven ne Il fiore di carne (e con Verhoeven farà altri cinque film), a Hollywood era arrivato a fianco a Stallone (I falchi della notte, era il 1981 ), il suo volto di cattivo impassibile impressionava in un altro film cult, The Hitcher – La lunga strada della paura, dove era killer spietato; ancora: lo ricordiamo cavaliere in Ladyhawke. Arriva poi un ruolo cruciale e metafisico nel capolavoro di Olmi La leggenda del santo bevitore, che nel 1988 vince il Leone d’Oro a Venezia. Diviso tra America e Europa, amava i registi italiani (Wertmüller, Tessari, Ferrara, Argento, ancora Olmi che lo volle per Il villaggio di cartone).
L’ultimo ruolo? I fratelli Sisters di Audiard. Per interpretare chi? Il malvagio commodoro che vediamo per un attimo solo alla fine, disteso in una bara, percosso da John C. Reilly che si vuole accertare che sia davvero morto, dubitando che per quell’infelice fosse davvero arrivato il tempo di morire. Curiosa suggestione.

Alessandro Leone

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