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SPECIALE La zona d’interesse

Difficile scrivere a mente lucida di questo film. È una di quelle pellicole colloidali, che ti rimangono addosso a distanza di giorni, e che si prestano sempre a una molteplicità di interpretazioni. Tutto perché non hanno un centro di gravità, un punto dove inserire il goniometro dell’interpretazione e costruirci qualcosa attorno, una bozza di idea, un disegno di senso compiuto o quello che ci si aspetterebbe da una recensione. Jonathan Glazer, già salito alla ribalta con l’eccellente Under the Skin (2013), produce un altro film multidimensionale, dove la penna del critico e l’occhio dello spettatore possono conficcarsi in qualsiasi punto, per trovarvi aperture misteriose e nuovi significati. Si potrebbe dire che questo è un film banalmente storico, perché segue le vicende reali del comandante di Auschwitz, Rudolf Höss. Ed è tanto più storico tanto più che ripulisce il romanzo da cui è tratto, del recentemente scomparso Martin Amis, di un po’ tutte quelle leggerezze narrative, i fronzoli e gli orpelli che sovente la storia la coloriscono. Cioè storia pura, tratta da un racconto sulla Storia, ma che qui diventa cinema che a sua volta si fa cosa diversa da sé. Sembra un rompicapo, ma degli anni quaranta, in questo spazio cinematografico, non c’è proprio nulla.

Glazer, che è inglese e usa finanziamenti in parte polacchi, fa l’esatto opposto di quel che farebbe un americano. Gli americani sogliono ricostruire il passato per fare revisionismo sul loro presente; gli europei, a quanto pare, sfruttano le tragedie del passato per rimodulare quelle del presente. Glazer sottrae le cose al processo di storicizzazione, le rende atemporali, le colloca in una bolla di straniante normalità in cui una villetta colonica dell’epoca potrebbe essere una casa di oggi, e in cui usi e costumi si sono conservati pressoché intatti: la piscina per i bambini con tanto di scivolo, le aiuole profumatissime, le festicciole in giardino con tavoli imbanditi e sedie a sdraio, l’impeccabile completo bianco del comandante e la sua capigliatura alla moda (da trapper). E poi c’è un muro, anzi il muro, che divide l’ambiente domestico del comandante dal lager propriamente detto, là dove muore la gente, torturata, bruciata, fucilata a seconda dei fabbisogni del momento. Ma rimane lì, a latere degli eventi, come l’incrostazione di un orrore contingente che assume le fattezze di una pura e banale necessità burocratica. Per tutto il tempo seguiamo le quotidiane vicende della famiglia Höss, moglie e figli e colleghi di lavoro, promozioni professionali e qualche risolvibile problema famigliare: una normalità fatta di piccole routine, come togliersi le scarpe prima di entrare in casa (e soprattutto lavarsele dal sangue delle vittime), giocare con i figli o preparare la camera per la suocera in visita.

In questo Glazer cita un po’ Il figlio di Saul (2015), che non mostrava mai l’orrore perché l’orrore era sempre fuori fuoco, raccolto in macchie nebulose a bordo campo; lui, Glazer, l’orrore lo rende un processo sonoro, urla estemporanee, infernali lamentazioni di morituri sempre invisibili, preclusi alla percezione dal muro di cinta di casa Höss. Il film, girato nel 2021, non poteva certo preludere ai luttuosi eventi della contemporaneità, eppure quella barriera di cemento ricorda troppo da vicino le nostre responsabilità collettive per dirsi semplice esortazione alla memoria. Impossibile non pensare a quella grande metafora che è l’Ucraina, o alla mattanza di Gaza, insomma agli spazi al di là del muro, dove furoreggiano guerre, massacri e genocidi finanziati proprio dalla placida indifferenza dell’Occidente. La messa in scena di Glazer, debitore palese di Michael Haneke tanto da averne mutuato l’attore principale de Il nastro bianco (Christian Friedel), rende protagonisti gli spazi, gli oggetti, le geometrie degli arredi. Non le persone: quelle, proprio come le atrocità mai inquadrate, restano a fare da sfondo.

Marco Marchetti

Un conato di vomito
Puoi essere il boia più spietato sulla faccia della Terra, ma l’odore dei cadaveri è pur sempre nauseabondo, prende le budella; e poi la cenere che copre a neve i campi, rogo dopo rogo, si respira, penetra nei polmoni, così ogni morte sedimenta anche nel corpo del boia e qualche disturbo dovrà pure manifestarsi: un colpo di tosse, dispnea, più in basso, dolori addominali, nausea che percorre il tubo digerente fino al conato. Non fosse stato per Glazer, non avrei mai potuto immaginarlo, Höss, piegato sullo stomaco in procinto di vomitare, non lui, ma nemmeno altri esecutori materiali delle mattanze nei campi di sterminio. Glazer lo inquadra così, sempre a distanza di sicurezza, sul finire del film, prima di un salto temporale disorientante che non mancherà di stratificare significati alla distanza. A me piace pensare che sia l’attore Christian Friedel che tenta di espellere il personaggio che interpreta, l’oscenità di quella figura corrotta incidentalmente dal male in un punto lontano della sua infanzia (ce lo ha spiegato Haneke ne Il nastro bianco in quale contesto si fossero formati i futuri nazionalsocialisti). Tutti gli Höss del Reich difficilmente avrebbero vomitato al cospetto della storia, non lo hanno fatto a Norimberga, neanche a due passi dal cappio, riconoscendosi fino in fondo in un progetto scientifico di annientamento del nemico, quali tasselli fondamentali nel compimento del disegno del Fuhrer supremo. Höss come direttore d’azienda, capace più di ogni altro di accelerare la produzione, un’impressionante moltiplicazione del prodotto finito, che, nella catena di montaggio di Auschwitz, equivale all’annientamento di corpi, non persone, semplicemente corpi, senza però eccedere, risparmiando gli abili al lavoro. Aveva voluto incidere la sua storia con la scritta Arbeit macht frei.

Un grande uomo ha sempre al suo fianco una grande donna, comprensiva, complice, allineata: le spiega che gli ingegneri lo aiuteranno a spingere la produzione a livelli impensabili, un’architettura perfetta che include una macchina perfetta di ingranaggi sinergici. Lei (Sandra Hueller, sembra generata da una costola del diavolo) se ne rallegra; non fosse che la cenere fastidiosamente si deposita sulle rose, quello che abitano sarebbe il paradiso. Non c’è angolo di quella casa che non sia in linea con la visione della sua leader, strega del focolare. Lui e lei, specularmente impegnati su due distinte architetture perché nulla sia lasciato al caso: la morte dei deportati, la vita dei figlioletti. Il primo un luogo evocato dall’angosciante partitura sonora che fa riemergere nello spettatore visioni mutuate da altri film, un immaginario robusto, radicato ormai, fino anche all’addomesticamento, come può esserlo la museificazione dell’orrore (penso a un documentario imprescindibile come Austerlitz di Sergei Losnitza), che spiegherebbe il finale con la zona di interesse a lucido in una teca.
Il campo di concentramento e la casa (come la cantina delle torture sotto la casa borghese ne Il Clan di Trapero): due corpi architettonici regolati da due orologiai, fatti su misura per un’intesa che sfida la perfezione, insieme nello zelo, specchiati l’uno nell’altra eppure divisi fisicamente, una comunione senza amplessi. Glazer li inquadra nell’intimo della loro camera matrimoniale, in due letti distanti un metro e mezzo, simmetrici nelle posizioni, raggelati, vampirici. L’impressione è che tutta la casa sia abitata da non-morti, che a stridere davvero siano le voci dei fanciulli in piscina, delle merende di gruppo, delle corse tra i roseti: sono The Others, gli Altri, parenti dei fantasmi di Amenábar. La Höss lotta perché il marito non perda il privilegio di vivere in quella casa, perché difenda il suo eden, che ha tutto l’aspetto, invece, dell’epidermide pronta a rivelare il marcio sottostante, la putrefazione già in atto. Il campo e la casa interconnessi da un intestino sotterraneo, malato, ripreso con la stessa glacialità con cui Lukas Zal, direttore della fotografia, ha ripreso la superficie. Una decina di macchine Sony Venice, seminascoste, per registrare ambienti e corpi evitando piani ravvicinati. La giusta distanza, dicevo, arginando qualsiasi moto dell’anima, scavando un abisso tra lo spettatore e la coppia, una contro-empatia che rifugge la seduzione per fare degli Höss paradigma del male, sottraendoli all’enfasi delle luci cinematografiche, smunti in una palette di colori che squillano a morte come in un dipinto di Ensor, più morti del fantasma che si aggira nel buio tra i boschi intorno al campo per lasciare frutta per i detenuti, che non ha colore ma sprigiona calore nella notte, come un sogno in un incubo.

Alessandro Leone

La zona di interesse

Regia e sceneggiatura: Jonathan Glazer. Soggetto: Martin Amis. Fotografia: Lukas Zal. Montaggio: Paul Watts. Interpreti: Christian Friedel, Sandra Hueller. Origine: UK/Polonia, 2023. Durata: 105′.

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