“Un difetto celato in un bene o in una proprietà, che causa o contribuisce a causare il suo deterioramento, danno o eliminazione. Questi difetti di natura intrinseca, rendono l’oggetto di un rischio inaccettabile per un vettore o assicuratore. Esempi di vizi di forma includono combustione spontanea, ruggine, ecc..”.
Il Vizio di forma che dà il titolo alla nuova fatica di P. T. Anderson – acclamato regista di Bughy Night, Il petroliere, The Master – sembra essere quello che affligge inguaribilmente il mondo intero, o almeno questo mondo raccontato, caotico, delirante e irresistibilmente divertente, dentro cui i livelli di senso sono così tanti e contraddittori, da rendere vano il tentativo di afferrarli tutti, e lasciando alla fine il sospetto che persino l’autore si sia abbandonato alla cornucopia di suggestioni, imponendosi di non addomesticarla.
Prima attesa trasposizione cinematografica dell’omonimo libro di Thomas Pynchon, idolatrato e odiato scrittore post-moderno americano, celebre per i romanzi labirintici e paranoici, dove spesso la trama acquista senso soprattutto nelle divagazioni, la vicenda sembra innescarsi dal più classico dei cliché di genere noir: un caso su cui indagare su richiesta di una femme fatale. Ma è solo un punto di partenza da cui deragliare. Perché siamo a Los Angeles nell’anno spartiacque 1970, dove tutto sembra collidere con tutto.
L’ex compagna indimenticata Shasta (Katherine Waterston) del detective Larry Doc Sportello (Joaquin Phoenix) si fa viva dal nulla per chiedergli aiuto. La moglie del suo amante Mickey Wolfmann – un palazzinaro miliardario senza scrupoli – vuole tirargli un brutto scherzo, per impadronirsi del suo patrimonio, e le ha chiesto una mano. La ragazza non sa cosa fare e per questo si rivolge all’uomo da spiaggia, il detective in sandali di gomma costantemente strafatto (che ricorda negli abiti e nelle larghe basette scomposte il Neil Young dei tempi d’oro), perché faccia in modo che non succeda niente di brutto. E poi scompare. E scompare anche Wolfmann.
Impossibile per il romantico e fumato Doc Sportello non tuffarsi nel dedalo di situazioni comiche, sorprendenti, sexy e paradossali che la Los Angeles di questo inizio anni ‘70, reinventata dal film, gli dispiega davanti, coinvolgendolo in omicidi, incontri con bande di biker ariani, traffici di stupefacenti su navi cinesi, che forse non sono cinesi e potrebbero essere di una lobby di dentisti; schivando trappole, poliziotti immancabilmente corrotti e dediti alle comparsate televisive, o viceversa, quasi per bene, ma che ce l’hanno a morte con lui; persino a imbattersi in una drogata con i denti rifatti in ceramica, che lo ingaggia per sapere che fine ha fatto l’amato marito Coy, sassofonista perso nel Topanga Canyon con una band di cui è praticamente prigioniero, mentre fa l’infiltrato dei servizi, e desidera soltanto uscire dall’incubo di doppi giochi in cui è caduto. Tutto per ritrovare Shasta, evitare guai, aiutare il prossimo, per quanto possibile.
Ma la peregrinazione dell’intreccio, che rischia a tratti di essere fine a se stessa e di far domandare al pubblico che senso ha, non è puro intrattenimento, ma viceversa, con un linguaggio che evita ogni retorica, tocca con leggerezza alcuni dei temi e delle problematiche cruciali della vita degli americani in quegli anni, che avevano in Los Angeles e nei sogni bruciati, il loro epicentro: il ritorno alla natura e alla spiritualità in contrasto con le strategie speculative e la corruzione, le istanze di rinnovamento in conflitto con il conservatorismo di Nixon, la sincerità un po’ ingenua della proposta hippy con il nascente modello consumistico, a cui si iscrive un’idea radicalmente diversa di edonismo e di consumo delle droghe.
Impeccabile schiacciasassi hollywoodiano, costellato di battute fulminanti, momenti esilaranti, contraddizioni così ben architettate da spiazzarti di continuo, permeata di una sensualità giocosa e irrefrenabile, questa detective story sui generis si fonde con la slapstick commedy moderna, in una sorta di ornitorinco cinematografico che ricorda a tratti (e forse da lontano) Il lungo addio, a tratti L’aereo più pazzo del mondo, e intrattiene con grazia per due ore e mezza (un formato quantomeno anomalo per la commedia), nutrendosi di performance attoriali eccellenti (Joaquin Phoenix e Josh Brolin, nel ruolo del detective “Bigfoot”, su tutti; ma ci sono Benicio del Toro, Eric Roberts, Owen Wilson, nel ruolo del sassofonista-infiltrato) e della consueta abilità registica di Anderson, che dietro la macchina da presa governa questo non facile caleidoscopio di tinte e motivi, rinunciando in parte alla predilezione per i piani sequenza, spostando l’attenzione su primi piani emotivi e comici, in una regia forse meno personale e più di servizio, ma riuscendo acrobaticamente, lontano dall’epica a cui ci aveva abituato nei due ultimi film, a rimanere se stesso.
Una menzione a parte per la colonna sonora, a cura di Jonny Greenwood dei Radiohead, già collaboratore di Anderson ne Il Petroliere e in The Master, che riesce a portarci nella musica degli anni settanta in modo originale, reinventandola, fuori dagli stereotipi di ritorno sull’epoca, sia nelle composizioni originali, sia nella scelta dei brani d’epoca, che vanno dalla band sperimentale tedesca cult Can, a Minnie Riperton, a Neil Young.
Massimo Donati
Vizio di forma (Inherent Vice)
Regia e sceneggiatura: Paul Thomas Anderson. Fotografia: Robert Elswit. Montaggio: Leslie Jones. Musiche: Jonny Greenwood. Interpreti: Joaquin Phoenix, Benicio Del Toro, Katherine Waterston, Owen Wilson, Reese Witherspoon, Josh Brolin. Origine: Usa, 2014. Durata: 148′.