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Il corriere di Clint Eastwood

the-mule_corriereClint Eastwood ha ottantotto anni. Non solo produce e dirige film con l’energia di un ragazzino, ma con Il corriere – The mule il regista torna davanti alla macchina da presa stracciando il foglio di congedo che aveva firmato dopo Gran Torino con un finale memorabile del film e del suo mito. Sembrava tramontata un’icona (non il suo ricordo): i film li avrebbe solo diretti, magari concedendosi nelle sue letture dell’America contemporanea libere sperimentazioni senza assilli e obblighi di dover sempre accontentare critica e pubblico (come nell’ultimo Ore 15:17 – Attacco al treno), soprattutto dopo aver sbancato con American Sniper. Invece, quando viene proposto a Eastwood un soggetto tratto da un fatto di cronaca raccontato da Sam Dolnick sul New York Times Magazine in un articolo dal titolo “The Sinaloa Cartels’ 90-Year-Old Drug Mule”, il regista ci ripensa e con lo sceneggiatore di Gran Torino Nick Schenk si disegna un personaggio su misura. A Eastwood evidentemente interessa più il cinema che un mezza promessa, per cui torna protagonista per interpretare il vecchio “mulo” Leo Sharp, floricoltore che dopo il fallimento si concede ad un cartello del narcotraffico.
the-mule2Leo Sharp diventa Earl Stone, appassionato di fiori effimeri come gli Hemerocallis: sbocciano, splendono per bellezza un solo giorno, per avvizzire fino a nuovo ciclo. Earl Stone ha dedicato la vita a questi fiori. Apprezzato in tutti gli Stati Uniti, ha raccolto premi e ammirazione; nel mondo fugace dei fiori è diventato qualcuno, mentre nel mondo duraturo della sua famiglia è diventato un estraneo, anche per la figlia (Alison Eastwood) che pure aveva chiamato Iris, rinviando ad un tempo imprecisato l’apporto amorevole di padre. Ma Earl, che non aveva fatto i conti con la velocità con cui gli anni fuggono dopo la maturità, adesso si ritrova strattonato verso obiettivi opposti da due forze uguali e contrarie: nello specifico, da una parte la sopravvivenza di un’identità gratificante che si vorrebbe perenne (il piacere in un contesto dove Earl si sente principe), dall’altra la necessità di recuperare ciò che si è perduto (la famiglia). Per questo, un po’ per opportunismo (la bancarotta), un po’ per profonda necessità, Earl accetta una proposta al buio allettato dal denaro che gli permetterà di sanare la sua posizione e i rapporti con i suoi cari, a cominciare dalla moglie Mary (Dianne Wiest).
Earl, per certi versi imparentato ideologicamente al reduce Walt Kowalski di Gran Torino, che prima di solidarizzare con un vicino asiatico, sputa insulti ai musi gialli fedele al conservatorismo più bieco, ammorbidisce le spigolature: dotato di vena autoironica e consapevole di vivere in un paese multietnico non declassa gli individui perché sono “mangia fagioli” o “negri”, solidarizza anzi, direi li guarda quasi con affetto come tutto il suo midwest. Del resto il repubblicano Eastwood non ha mai fatto propria la cecità anacronistica di buona parte dell’elettorato di destra: il suo cinema ha esplorato le contraddizioni del suo paese muovendosi su una linea temporale ampia, come a sviscerare, senza troppo relativizzare, le radici dei presunti valori fondativi (patria e famiglia) e al tempo stesso le ambiguità insite.
Adesso che al novantenne Earl, cinico egoista, vicino al suo sfiorire, la vita deve sembrargli lunga un giorno, la fedeltà ideologica perde di senso. C’è da recuperare una famiglia prima che il fiore appassisca, prima che la commedia si trasformi in tragedia e per questo fa saltare i valori etici e le posizioni preconcette, tanto da accettare di fare il “mulo” senza calcolo del rischio (che ha di per sé una componente comica e drammatica insieme). Il vecchio Earl/Eastwood ha un piano e se ne infischia della morale, il tempo della malattia lo ha risparmiato, il tempo della morte è lì e il suo corpo, messo a nudo con dignità esemplare, ha il coraggio di ricordarlo a se stesso, allo spettatore e probabilmente a tutti gli Earl del mondo. Quel corpo è la sua verità ma non ancora la sua tomba, per questo, vecchio Earl!, si fa coccolare da giovani donne, libero di fregarsene e di unire l’utile al dilettevole, di godere – dopo tutto – degli errori di un’intera vita e al tempo stesso di maledirli, contraddittorio, forse, ma maledettamente umano.


Più di Redford in Old Man and the Gun, Eastwood riflette sul presente e sul tramonto della carriera attraverso il suo corpo, ma con The mule è meno referenziale (forse lo era stato in Gran Torino), non si omaggia, non si specchia, e se gioca al gatto con il topo con l’agente della DEA (Bradley Cooper), che ha giurato di incastrare il “mulo” e chi lo paga (dinamica che ricorda Un mondo perfetto), non è per sfida ma per il gusto di godere dei vantaggi di un età che lo vorrebbe inerte agli occhi di chi pensa che il mondo sia ad uso e consumo dei giovani. In uno dei brani di una colonna sonora per nulla scontata, Don’t Let the Old Man In, Toby Keith si chiede “quanto ti sentiresti vecchio se non conoscessi la tua età?”.

Alessandro Leone

Il corriere – The mule  

Regia: Clint Eastwood. Sceneggiatura: Nick Schenk. Fotografia: Yves Bélanger. Montaggio: Joel Cox. Musiche: Arturo Sandoval. Interpreti: Clint Eastwood, Bradley Cooper, Dianne Wiest, Andy Garcia, Laurence Fishburne, Michael Peña, Alison Eastwood, Taissa Farmiga. Origine: Usa, 2019. Durata: 116’.

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