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Mia madre

Margherita è una regista e sta girando un film che parla di una fabbrica italiana in crisi. E’ nel pieno delle riprese. L’attore americano è appena arrivato. C’è ancora molto da girare e ancora tante, tante decisioni da prendere. Ma per lei qualcosa di enorme e tragico sta accadendo fuori dal set: Ada, sua madre, è ammalata e sta morendo. E’ un qualcosa che Margherita sembra non riuscire a capire, ancora prima che ad ammettere. Ma come per il suo film, la grande macchina, la macchina della malattia e della morte, si è ormai messa in moto e non si può più tornare indietro. Sua madre sta morendo, e Margherita, inseme a suo a fratello Giovanni, dovrà trovare un modo per arrivare fino in fondo.

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Uguali eppure diversi. Per quello che racconta – la perdita di un familiare – riesce inevitabile ricondurre Mia madre dalle parti de La stanza del figlio (2001). Eppure, più che tra i punti in comune, una traccia più interessante andrà forse cercata tra le differenze.
Ospite della trasmissione radiofonica
Hollywood party, Nanni Moretti ammette come i due film abbiamo nei confronti del lutto un approccio in un certo senso opposto (il podcast della puntata è disponibile qui). Se ne La stanza del figlio, la morte si presenta improvvisa ed impone di essere accettata a cose fatte (e la stanza del figlio che non c’è più diviene la rappresentazione fisica di un vuoto incolmabile), in Mia madre Margherita e Giovanni le vanno incontro un passo alla volta, disponendo non a caso dell’intero tempo del film per imparare ad accettarla. E’ un percorso altrettanto doloroso, ma che, trattandosi di un genitore e non di un figlio, finisce per rientrare nell’ordine naturale delle cose. La perdita dell’ultimo genitore è allora anche una delle tappe fondamentali della vita di un uomo. E’ il momento in cui si smette per sempre di essere figli. E per dare il senso di quanto questo stato di figlio abbia avuto un peso nel cinema di Moretti, basterà ricordare di come, ancora trentacinquenne e ormai uomo fatto, farà morire dopo cinque film il suo alter ego cinematografico: l’ultima battuta che Moretti scrive per Michele Apicella è un grido a pieni polmoni: Mamma, vienimi a prendere! (Palombella rossa, 1989). E Apicella, vale qui la pena di ricordarlo, è anche il nome da nubile della madre di Moretti.


Caro diario, caro spettatore. Il rapporto affatto particolare che Nannni Moreti ha instaurato con il proprio pubblico in generale e con la critica in particolare si basa quasi sempre su di un fraintendimento: l’identificazione tra il regista e i protagonisti dei suoi film. E’ una sovrapposizione quasi totale, unica in Italia, e che nel resto del mondo ha come paragone, forse il solo, il caso di Woody Allen. Se è vero che una schiera di personaggi di volta in volta coerenti gli uni con gli altri, accompagnata dalla messa in scena di elementi autobiografici, ha finito per spingere inevitabilmente verso questa direzione, è altrettanto vero che questa sovrapposizione è dilagata, nella percezione della sua opera, fino ad assumere i contorni dell’appiattimento (si veda su questo argomento il bel saggio di Ewa Mazierska e Laura Rascaroli: Il cinema di Nanni Moretti, sogni & diari, Gremese editore, 2006). E’ forse anche per sfuggire a questo fraintendimento se nei due film precedenti Moretti ha affidato ad altri il ruolo di protagonista (Il caimano, 2006 e Habemus Papam 2011). In questo, Mia madre non fa differenza.

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Pur muovendo da un episodio autobiografico, la perdita della madre avvenuta durante il montaggio di Habemus Papam, Moretti sceglie Margherita Buy per interpretare il doppio ruolo di figlia e regista, lasciando per sé quello del fratello Giovanni. Per la stessa ragione il film che Margherita sta girando e di cui ci vengono mostrate le riprese è un film evidentemente non morettiano. Per evitare di confondere troppo le cose, per evitare un eccessivo avvitamento del film su se stesso, dice Moretti in conferenza stampa. In questo senso, la prima inquadratura del film è emblematica: un lungo movimento di macchina, che con un dolly parte dal basso, sale e ridiscende a disegnare un ribaltamento di campo, per poi frantumarsi in tagli di montaggio ravvicinati e buttati addosso ai personaggi. E’ un inizio in un certo modo sorprendente, con un modo di muovere la macchina da presa estraneo al cinema di Moretti, che già nel 1986 predicava il suo amore per la macchina fissa e il montaggio interno all’inquadratura. E infatti, poco dopo sentiamo lo Stop! di Margherita irrompere in scena e fermare le riprese. Era il suo film che stavamo guardando, non quello di Nanni.
Ma se ne Il Caimano e in Habemus Papam, Moretti era riuscito a resistere alla tentazione di esserci anche quando il suo personaggio non è in scena, in Mia madre, forse per la vicinanza sentimentale al tema trattato, questa distanza gli riesce solo a film inoltrato. E basteranno poche frasi per accorgersi che Margherita Buy altri non è che la versione femminile del personaggio che tante volte Nanni Moretti ha chiamato in scena come suo (parziale) alter ego. Parrebbe uno slittamento da poco, un cedimento perdonabile, ma su questa incoerenza, su questa distanza promessa in fase di costruzione e tradita nello scambio delle battute, il film avrebbe potuto rischiare di perdersi. Se non lo fa, molto del merito va dato all’interpretazione della Buy, che riesce col procedere del film a dare al personaggio uno spessore suo proprio, senza tralasciare, ed è sorprendente, quell’ammiccamento alla figura mediatica di Moretti che tanto farà piacere ai suoi fan (e chi scrive, deve ammetterlo, è fra quelli).
Così bilanciato, Mia madre riesce nel proprio intento. Mostrando con dolente pudore il doloroso percorso che porta alla separazione definitiva. Non ci sono scene madri in questo film (e del resto a fatica si riuscirebbe ad indicarne qualcuna nell’intera filmografia morettiana), non si cede mai all’enfasi, né si chiede mai alla musica di caricare l’emozione. Eppure la narrazione sottostà, come è giusto, alla partitura emotiva di Margherita.
Ci sono delle sequenze che sono sequenze di ricordo, altre che sono sogni rappresentati. Moretti afferma di aver volutamente tolto allo spettatore la possibilità di accorgersi immediatamente della loro presenza, lasciandogli il compito di scoprirle poco a poco. In questa scelta risiede una maturità stilistica sorretta dalla capacità di trarre dalle esperienze della vita il materiale per l’arte. Moretti sa che, nell’avvicinamento alla morte, il tempo interiore prende il sopravvento su quello esteriore. E i ricordi, i sogni e la quotidianità si mischiano e diventano un tutt’uno.
Non ci sono grandi discorsi, monologhi da primo piano. C’è la consapevolezza, anche amara, ma portata con smarrita dignità, che quando il momento si avvicina le parole non arrivano. Anche se sarebbe bello, non ci sono.
Bisogna allora essere lì.
Potrà sembrare poco, ma non rimane altro.

 Matteo Angaroni

Mia madre

Regia: Nanni Moretti. Sceneggiatura: Nanni Moretti, Francesco Piccolo, Valia Santella. Fotografia: Arnaldo Catinari. Montaggio: Clelio Benevento. Interpreti: Margherita Buy, Nanni Moretti, John Turturro, Giulia Lazzarini, Beatrice Mancini. Origine: Italia, 2015. Durata: 106′.

https://www.youtube.com/watch?v=q4tQ6VvPPc4

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