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Alabama Monroe

Elise ha il corpo ricoperto di tatuaggi. Ogni tatuaggio nasconde il nome di uno degli amanti che hanno costellato i suoi rapporti sentimentali: farfalle, serpenti, pistole, icone che cancellano in superficie un passaggio che sarebbe dovuto essere sempre definitivo. Soprattutto l’ultimo, Didier, omone barbuto, meccanico dai modi sbrigativi, ma buono d’animo, suonatore di banjo e amante della alabama-monroe-musicistimusica folk americana bluegrass. Si innamorano a prima vista, lei rimane incinta e, nonostante le prime resistenze di Didier, mettono al mondo Maybelle, che però presto si ammala di cancro e muore. Una prova che Elise e Didier perderanno sul piano emotivo fino all’annientamento fisico (di Elise).

Tema che ricorda La guerra è dichiarata di Valérie Donzelli, il film belga che ha conteso l’Oscar al nostro Paolo Sorrentino è un melodramma in salsa country – perdono: bluegrass – sullo sfondo di uno dei più cupi paesi centro-europei (così come lo hanno raccontato ad esempio i Dardenne). Il regista Felix Van Groeningen però cancella le periferie di Liegi o Bruxelles per trasferirvi il sogno dell’America rurale di un bizzarro gruppo di musicisti e dei loro estimatori. Didier si è ritagliato un pezzo del suo sogno, che apre senza indugi a Elise, prorompente e passionale. Un amore che genera presto una famiglia, concetto nuovo per entrambi. Didier dapprima fugge dalla responsabilità, poi accetta il ruolo di padre come atto supremo d’amore. Ma il destino in agguato ha in serbo l’amara sorpresa e quella vita libera e spensierata, tra amici che sembrano parte di una comune sessantottina, perde colori e armonie, definendo una storia che potrebbe trovare posto tra le liriche di un testo folk.
Il banjo di Didier e la voce di Elise, che del gruppo diventa musa e cantante, impazziscono di dolore e stonano negli accordi di un alabama1rapporto che rovina sotto le tensioni della malattia ingiusta. Maybelle sfiorisce nel cancro e il suo viso smunto si contrappone al racconto in flashback dei passaggi vitali della storia di Elise e Didier, di tutte le loro prime volte: i primi sguardi, il primo sesso, il primo brano insieme e il primo concerto, il nome Didier tatuato sul corpo della donna, che pare sancire l’esclusività e la totalità dell’amore; poi il parto e il primo anno della piccola Maybelle. Non in ordine cronologico ma comunque cuciti insieme in un puzzle mai caotico.
È semmai dopo la morte della bambina quasi a due terzi di film, che la narrazione vira sin troppo sul melò e si fa lineare, quando tra lui e lei ci si mette il senso di colpa, l’impossibilità di elaborare il lutto, l’incomprensione di due corpi che non riescono più a comunicare. Improvvisamente il corpo tatuato di Elise, adesso ribattezzata Alabama, diventa linguaggio dal codice cifrato: sotto i tatuaggi potrebbe a quel punto essere sepolta tutta una vita di sofferenze, così come nei testi delle folksongs di Didier è al contrario scoperta la voglia di urlare il disagio verso un mondo corrotto dall’ingiustizia. Nel percorso autodistruttivo di Elise, che cancella anche il nome del compagno, Van Groeningen perde asciuttezza narrativa, esagerando a volte con dialoghi sin troppo descrittivi, lì dove sarebbero bastati i volti degli straordinari Veerle Baetens e Johan Heldenbergh (autore tra l’altro della pièce teatrale all’origine di Alabama Monroe).

 Vera Mandusich

Alabama Monroe

Regia: Felix Van Groeningen. Fotografia: Ruben Impens. Montaggio: Nico Leunen. Interpreti: Veerle Baetens, Johan Heldenbergh, Nell Cattrysse. Origine: Belgio, 2013. Durata: 111′.

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