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Due giorni, una notte

Il lavoro all’epoca della crisi. Quanti film ne hanno raccontato i risvolti in quest’ultimo decennio? I Dardenne (e pochi altri) da prima, dal loro lungometraggio d’esordio nella finzione, La promesse (1996), e subito dopo con Rosetta (1999), la loro prima Palma d’Oro a Cannes, a definire i Due-giorni-una-notte_2contorni di un universo che mostrava già più di una crepa, tra contratti in nero, discriminazioni di genere e sfruttamento della manodopera giovane. Il lavoro se non centrale ha comunque sempre fatto da sfondo nei film successivi. Eccezion fatta per la fiaba Il ragazzo con la bicicletta, Il figlio si svolge in parte in una falegnameria, mentre i protagonisti di L’enfant e Il matrimonio di Lorna sono a caccia di soldi in contesti urbani dove domina la disoccupazione.
Con Due giorni, una notte i fratelli belgi ritornano nel cuore del problema, portandoci una diva, Marion Cotillard (conosciuta sul set di Un sapore di ruggine e ossa, di cui erano co-produttori), e affidandole il film, con il rischio di sacrificare l’impressione di realtà che è sempre stato un marchio di fabbrica.
La Cotillard è Sandra, operaia appena uscita dalla depressione che, considerata l’anello debole di una catena di diciassette lavoratori in una piccola azienda che produce pannelli solari, viene licenziata dopo una votazione interna tra gli effettivi, a cui è stato promesso in cambio un bonus di 1000 euro. Di fronte al vil denaro c’è poco da fare i puri. Spinta però dal marito e da una collega, Sandra cerca di convincere uno a uno i suoi colleghi a rivotare per salvarle il posto.
L’attrice francese si presta umilmente alla macchina cinematografica dei Dardenne, spogliandosi di ogni velleità divistica, facendo propria la disperazione e le fragilità di Sandra e conducendola a una maturazione psicologica che, se sembra inverosimile inquadrata nel breve arco di un week-end, regge nello sviluppo di una vicenda che dichiara sin da subito di voler essere esemplare, proprio come il film precedente (guarda caso interpretato da un’altra attrice di fama, Cécile De France). Entrambi i film si chiudono con un finale colmo di speranza, dissolvendo almeno in parte le nubi scure che paiono soffocare i protagonisti delle vicende. Uno scarto notevole che rafforza l’impressione di una virata sostanziale nei toni e nella costruzione del racconto già avvertita ne Il ragazzo con la biciletta. Rossellini è scomparso del tutto. Siamo lontani dai finali aperti due-giorni-una-notte(ma quanto aperti poi?) di Rosetta o L’enfant, dove la sensazione di lasciare comunque i protagonisti in un terreno melmoso rimaneva forte dopo l’accensione delle luci in sala. Il percorso di Sandra, ancora pedinata in perfetto stile Dardenne, è accidentato ma tutto sommato scontato (si arriva alla votazione con un sostanziale equilibrio tra chi può e non può rinunciare al bonus, più un indeciso che dovrebbe tirare su l’asticella della suspense). La soluzione finale arriva con un colpo di scena che non ti sradica dalla poltroncina, ma che annoveri subito come possibile. Allora si capisce che la via crucis di Sandra, dove gli incontri reiterano la stessa dinamica fino allo sfinimento, punta a due effetti: rappresentare il tragico presente, in cui il collettivo non è più solidale, e gli effetti sull’individuo. Da una parte, sospendendo come sempre giudizi morali, gli autori rappresentano una galleria di volti su cui è stampata l’incertezza per il futuro (attenzione! non sono tutti poveri, ma tra loro c’è anche chi ha investito su case di proprietà e beni di consumo e non ha voglia di rinunciarvi); in contrapposizione disegnano una parabola “eroica” in cui Sandra sconfigge le proprie insicurezze e si ritrova più forte e pronta per ripartire con energia verso nuovi orizzonti esistenziali.
In definitiva, rispetto ai film precedenti, Due giorni, una notte emoziona meno per favorire se non una tesi, l’assunto che la solidarietà corporativa è un ricordo, che sui luoghi di lavoro per non morire bisogna tagliare (tagliarsi) le teste, che è in corso un’educazione alienante alla marginalità, che l’altro è semplicemente altro, lontano, accidentale, superfluo.
I primi ad aver bisogno del finale conciliante sono proprio i Dardenne. Quanto si può resistere a raccontare varianti di una storia che sospende l’umanità in un limbo?

Alessandro Leone

Due giorni, una notte 

Regia e sceneggiatura: Luc e Jean-Pierre Dardenne. Fotografia: Alain Marcoen. Montaggio: Marie-Hélène Dozo. Interpreti: Marion Cotillard, Fabrizio Rongione, Catherine Salée, Olivier Gourmet. Origine: Belgio/Francia/Italia, 2014. Durata: 95’.

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