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Escape Plan

escapeplanAllora, c’è un unico comune denominatore che lega Escape Plan con i precedenti The Last Stand e I mercenari, ovvero la presenza di due stelle dell’action, splendidamente invecchiate, quali Sylvester Stallone e Arnold Schwarznegger, ma per il resto la parentela genetica che intercorre tra le pellicole è la stessa che lega marijuana e cocaina: la prima è robetta da sfigati in età critica, la seconda polvere per intenditori che quando vogliono sballare, lo fanno con tutti i crismi che si addicono alla situazione. Sì, perché fare del cinema d’azione non significa giustapporre, per mera associazione analogica, concetti nebulosi come sparatorie o inseguimenti in un organigramma confusionario, dove vince chi colpisce meglio e più a fondo rispetto all’avversario, o chi consuma i copertoni sgommando rispetto a chi li sgonfia prendendoli a pistolettate. L’action è innanzitutto un’idea, un tipo di scrittura, una elaborazione della stessa in forme narrative che sappiano unire l’originalità di una storia con i dettami più pratici della tensione. In The Last Stand di storia non ce n’era, mentre I mercenari era un mausoleo pacchiano al genere, più simile a un fumetto pisciato male che a una simpatica variazione a tema. Escape Plan, diretto dallo svedese Mikael Håfström, ha invece le carte in regola, è rispettoso del pubblico più sofisticato, che va al cinema perché crede ancora nella dignità di una buona sceneggiatura, e utilizza i muscoli per spaccare ciò che merita di essere spaccato anziché per fare scena e basta. Merito equanime di Miles Chapman e Jason Keller, che hanno sbozzato il racconto come Michelangelo estrapolava figure dal marmo, e cioè con criterio, e delle due compagnie finanziatrici, Summit Entertainment e Emmet/Furla Films, che hanno invece assegnato i volti (e soprattutto i fisici) giusti alle vicende. E non stiamo parlando soltanto della coppia Sly/Schwarzy, ma anche dei comprimari, a partire da Sam Neill, nelle vesti di un medico buono, capace di tradire (forse) i superiori in nome del giuramento di Ippocrate, fino alla bellezza glaciale di Jim Caviezel, diabolico direttore del carcere, e Vinnie Jones, faccia che sta all’action come quella di Hugh Grant alla commedia.

Stallone è Ray Breslin, un califfo dell’evasione, che assoldato dalle principali agenzie di sicurezza del paese, accetta di farsi imprigionare sotto falso nome pur di dimostrare che nessun penitenziario è stato collaudato tenendo conto di tutte le possibilità di fuga. E su questo l’uomo non si è mai sbagliato, almeno fino a quando non viene deportato in un carcere fantasma, utilizzato dal governo come collettore di terroristi e altre detenuti scomodi, e per la cui costruzione sono stati tenuti in conto i preziosi ragguagli raccolti dallo stesso Breslin… Presto l’abile ingegnere capisce di essere stato incastrato, e che i suoi committenti l’hanno inviato in questa missione con la speranza che non faccia più ritorno. Per fortuna riuscirà a farsi amico il misterioso Swan Rottmeyer (Schwarznegger), un tizio muscoloso che la sa lunga e che forse ha pure qualcosa da nascondere.escape

La scrittura è pressoché perfetta (a parte qualche piccola sbavatura, come l’eccessiva libertà concessa ai detenuti di confabulare e fare comunella), e molto più complessa di quanto si possa presumere di primo acchito: tutta la fuga iniziale, durante la quale si introduce il personaggio di Breslin/Stallone, è un capolavoro di rigore narrativo, e per quanto anche qui le forzature non manchino, non si può accusare la direzione di non aver saputo infondere le più massicce dosi di adrenalina che era umanamente possibile preparare. E quanta bravura nella creazione del penitenziario, una colossale struttura sotterranea che in qualche modo ripensa il concetto stesso di prigione, almeno per come ce l’ha tramandata il cinema, con queste celle che in realtà sono grossi cubicoli di vetro sospesi nel vuoto, e le camere di isolamento nelle quali i detenuti vengono torturati con lampade alogene dalla temperatura altissima e sottoposti a lunghi periodi di disidratazione. Certo, i fuochi d’artificio sono relegati all’ultima parte, che diviene un tripudio di proiettili, mitragliate e pestaggi sanguinolenti, ma seguire le peregrinazioni mentali di Stallone, alle prese con cunicoli claustrofobici, escamotage assurdi e complessissimi sistemi d’allarme, rende l’impianto del film un gioiello di suspence insaporita da estrogeni, testosterone e grovigli di muscoli cazzuti. Eppure Escape Plan non è soltanto un filmaccio spaccatutto, ma un’opera capace di riflettere le ansie cospirazioniste del dopo-Guantanamo, e proprio perché è una pellicola di genere, cioè una pellicola che non si prende sul serio, che preferisce la baruffa alla serietà, tratta l’argomento più e meglio di tanti lavori d’essai. Perché non ha la pretesa di spingere il pubblico a ragionare, quanto l’aspettativa di un divertimento facile e caciarone, spesso abilissimo, però, nel sottendere una qualche paura collettiva, come un sistema giudiziario manipolato da menti occulte, soppressione dei diritti costituzionali e l’introduzione di un senso della giustizia tanto spietato quanto sommario. Insomma, l’ideale per stimolare l’americano medio a ponderare la questione in tutta scrupolosità.

Marco Marchetti

Escape Plan

Regia: Mikael Håfström. Sceneggiatura: Miles Chapman, Jason Keller. Fotografia: Brendan Galvin. Montaggio: Elliot Greenberg. Musica: Alex Heffes. Interpreti: Sylvester Stallone, Arnold Schwarznegger, Jim Caviezel, Sam Neill, Vincent D’Onofrio, Vinnie Jones. Origine: USA. Durata: 115′.

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