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Imparare a guardare con “Maledimiele”. Incontro con Marco Pozzi e Gianmarco Tognazzi

Nella serata che conclude Varese cinema 2012 le piazze varesine hanno intrattenuto un nutrito pubblico di curiosi. Varie possibilità di scelta e tra queste anche quella di accostarsi ad una problematica a noi sempre più vicina con Maledimiele di Marco Pozzi, film presentato alla 67esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e uscito nelle sale ad aprile. Di certo non un film semplice, sicuramente un film disturbante che, attraverso una storia di anoressia, ci fa scontrare con un’inquietudine che sembra connaturata alla società occidentale. Ne abbiamo parlato al termine della proiezione con il regista venegonese e con uno degli interpreti principali del film, Gianmarco Tognazzi, salutati dai complimenti e dalle domande di un pubblico varesino sicuramente toccato e coinvolto.

Il regista ci tiene da subito a precisarlo: «questo film è stato erroneamente catalogato come un film sull’anoressia, ma in realtà vuole esprimere un disagio maggiore». Ed in effetti si tratta innanzitutto di un film sull’adolescenza, su quella fase della vita che nella sua ingenuità ed instabilità si scontra con più veemenza con le contraddizioni tipiche del nostro vivere contemporaneo, con l’abitudine a guardare senza più vedere, a sentire senza più ascoltare. Parlare con Marco Pozzi ci ha confermato ciò che già il film silenziosamente dichiara: non è una questione di colpe, o di cause contingenti, ma di un abito mentale che ci riguarda tutti e che non può che riverberarsi in primo luogo in ambito familiare.

È un dato di fatto che nell’ultimo decennio questa malattia sia esplosa: circa 8.000 sono i morti ogni anno in Italia, il doppio dei morti per incidenti stradali. Allora si capisce quali siano state le difficoltà di un film che per tutta la sua durata conserva un delicato equilibrio, ma anche un’intensità penetrante che riesce a coinvolgere e sconvolgere lo spettatore, senza bisogno di offrirgli un lieto fine fuori luogo, o la brutalità di una morte ad effetto. Non è il corpo di Sara, la giovane quindicenne protagonista, a parlare allo spettatore: è il suo sguardo e tutto ciò che vi sta dietro, è l’esasperazione del rapporto con il cibo e il proprio corpo, che si palesa sempre nelle sue ossessioni, nella sua maniacalità intransigente, nella forza stessa del suo pieno autocontrollo, senza mai dover ricorrere a quello scempio mediatico di un corpo consumato, a cui spesso l’anoressia viene ridotta. Per questo Marco Pozzi ci confessa che la più grande difficoltà si è rivelata per lui quella di «stare dentro la medietà» ed è proprio per questo che, anche dal punto di vista visivo, si è scelto di lavorare sulla sottrazione, sullo svuotamento progressivo, in un gioco di geometrie e di bianchi che mirano a far emergere un’assenza. «Se per il mondo occidentale – precisa il regista – il bianco ha sempre avuto un significato essenzialmente eucaristico, il bianco di Maledimiele è un bianco che non è rassicurante, ma nemmeno preoccupante, è il colore dell’anaffettività, il colore del vuoto, un’astrazione». E il vuoto è ciò parla anche nella scelta delle ambientazioni: anche nei momenti in cui i protagonisti sono insieme, c’è sempre un elemento che li divide, un elemento trasparente come può essere una luce o un vetro, ma che ricaccia ognuno nel suo proprio vuoto. «Sara e i suoi genitori sono come tre monadi», mondi paralleli che non riescono più ad incontrarsi.

È proprio a sottolineare queste incolmabili distanze che allora anche il compito degli stessi attori, come ci conferma Gianmarco Tognazzi, che nel film interpreta il padre di Sara, è stato innanzitutto quello di «lavorare in levare», togliendo più che aggiungendo, riuscendo ad emergere situandosi al margine, come del resto sta il padre al margine della vita di Sara. Ma anche le difficoltà di un ruolo così delicato vengono meno, secondo Tognazzi, nel momento in cui il rapporto tra attore e regista si fonda sulla reciproca fiducia: «Attore e regista devono andare nella stessa direzione, l’attore non dovrebbe mai essere soltanto un burattino nelle mani del regista. Come succedeva tra mio padre e Monicelli, e come mi è già successo con un grande regista come Marco Bellocchio, anche con Marco ho avuto conferma del fatto che più è forte il rapporto attore-regista, più è riuscito il film». Soltanto così è stato dunque possibile per Tognazzi impersonare il ruolo di un uomo perfettamente normale, con una famiglia e una vita perfettamente normali, che non riesce a capire e ad accettare che «anche dentro la normalità ci può essere un disagio».

Non rendere banale questa normalità è quindi l’obiettivo raggiunto di un film che nella sua plasticità, nel suo ritmo, ma anche nel suo stesso intreccio narrativo non è mai interessato a fare un discorso di tipo eziologico, ma soltanto ad individuare delle coordinate. Non è il rapporto tra Sara e i genitori, tra Sara e i propri coetanei, né qualche determinato episodio scatenante ad essere univocamente causa della malattia: come tiene a rimarcare Marco Pozzi «è un problema sociale, e il fatto che non si riesca a parlarne nonostante le morti significa che c’è un tabù, una resistenza, dovuta al fatto che è il nostro modus vivendi che viene messo in discussione». 

Indubbiamente era difficile per questo film tratteggiare questa problematica e più in generale il mondo dell’adolescenza, all’interno di un cinema italiano che preferisce piuttosto dare fin troppo spazio a ripetute e ripetitive storie di eterni adolescenti. E indubbiamente era ancor più difficile farlo scegliendo di conservare una delicatezza estranea alle logiche della telecompatibilità. Ciononostante il pubblico sembra aver bisogno di guardare e di vedere queste cose in questo modo: il film non lascia nessuno indifferente, anzi, e anche sabato sera  le reazioni e i commenti sono stati numerosi e vari, e qualcuno forse ha imparato, come già avvenuto dopo altre proiezioni, a decifrare i propri comportamenti o quelli dei propri figli. Questo è allora la dimostrazione del fatto che in realtà è proprio di questo cinema che il pubblico ha bisogno, oggi più di prima, perché questo pubblico, e sia Pozzi che Tognazzi ne sono convinti, «è meglio di quello che ci vogliono far credere».

Monica Cristini e Luca Scarafile

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