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La terza madre

Ecco dopo quasi tre decadi il ritorno in pompa magna di Dario Argento e delle sue stregonesche divinità al seguito di Fobetore, già ai tempi apparse in sogno, tra le contrade meneghine e i palazzi infestati di Piazza san Fedele, al britannico Thomas de Quincey; il quale, sotto l’egida ancestrale di Levana, nume romana protettrice degli infanti riconosciuti per via paterna, ebbe lucida visione, galeotte le leggende spettrali che allora gravavano su casa Imbonati, di tre “nostre signore del dolore”. Le tre madri, appunto, che quasi componendo un triangolo esoterico i cui vertici sono collocati tra New York, Friburgo e Roma, attendono “con occhi di sogni morenti e relitti di estasi dimenticate” (citiamo sempre de Quincey) il risveglio dalle più oscure latebre dell’inferno per invadere e distruggere il mondo.
È Roma, culla e al contempo sepolcro della civiltà, il luogo prescelto per il macabro sabba, ove dopo l’apertura di un’urna maledetta, orde di streghe in mondovisione, con le loro acconciature dark, gli ammennicoli e gli orpelli scopiazzati da Top Girl versione gotica, giungono in massa a festeggiare gli imenei dell’apocalisse. Fortuna che c’è Asia Argento, figlia di Dario e Daria (Nicolodi, s’intende, che qui interpreta una maga bianca e gentile) a salvare l’umanità dalla perfida Mater Lacrimarum, sorella maggiore delle compiante Suspiriorum e Tenebrarum, e con due seni talmente belli da sussumere a un imperscrutabile concetto metonimico, ovvero le tette per il tutto. Asia, archeologa in erba, aiutata dal baldo Michael (Adam James), è troppo sveglia per farsi irretire dal fascino fatale della magna mater, così, intraprendendo un percorso di (ri)scoperta dei propri esoterici incunaboli (un pizzico di magia, dicevamo tramandatole per via genetica, le è rimasto nel sangue) troverà il modo di inabissarsi nell’oscura dimora di Nostra Madonna delle Lacrime, sventare la tregenda orgiastica che colà prendeva piede, e ammazzare tutte le streghe cattive.
Per questo terzo (e ultimo) capitolo della trilogia matriarcale, Dario Argento fa le cose in grande e, con somma delizia, non ci risparmia in nemmeno una circostanza le incredibili scene di follia di massa che hanno reso celebre la pellicola: nel caso specifico tre automobilisti armati di clava che se la danno di santa ragione per le vie capitoline (cosa che a Roma, tra semafori lampeggianti e precedenze liberamente interpretate, succede forse a giorni alterni) e una giovane genitrice che, istigata dall’invisibile ma onnipresente sibilla del male, getta il pargolo nel Tevere (in realtà un bambolotto la cui mano meccanica, staccatasi dal corpo in fase di caduta, schizza nelle acque sotto gli occhi increduli dello spettatore).
La cosa susciterà anche un che di ilare, eppure quando una bella studentessa evoca i demoni e da essi finisce prima sbudellata, allora strangolata dalle sue stesse intestina, comprendi che sulle coste lavinie, nonostante e a dispetto di tutto, sopravvive del genio; ipotesi del tutto confermata in due altri momenti, quando la testa della fattucchiera nipponica viene spappolata tra la porta e lo stipite dei cessi (quelli di Trenitalia, celebri per la loro igiene) e il teutonico Udo Kier, versione sacerdotale, sgozzato prima, azzoppato poi, scapezzato quindi dalla perpetua indemoniata.
Signori, se tutto questo non v’è di gradimento…

Marco Marchetti

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