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Mistress America

mistressamerica2Citare Woody Allen di fronte al cinema di Noah Baumbach rischi il linciaggio. E di certo Baumbach non vuole fare Allen. Ma che nei suoi film si ritrovi qualcosa – nei dialoghi, nelle atmosfere – dell’Allen newyorkese non è affermazione eretica. Divide non poco Baumbach, i suoi racconti senza epica e magia (neppure quella legata alla Grande Mela) ciondolano tra adolescenza tardiva e maturità, i suoi personaggi sono baluardi di indeterminatezza, impauriti dal tempo e consolati dalle deboli filosofie hipster.
Brooke (ancora Greta Gerwig, musa, co-sceneggiatrice e compagna del regista) incarna straordinariamente questo modello, disturbante quanto basta, mai troppo da diventare respingente. E’ una circa trentenne che conosce gente, che vive ovunque al centro delle attenzioni di molti, che ha idee vincenti e fa cose senza peraltro concretizzare nulla, che pensa che tutto sia mistresspossibile perché è giovane e brillante. Questo appare nel riflesso dei bicchieri degli aperitivi nei colorati happy-hour dei quartieri radical chic. Almeno fino a quando la luce non si spegne e la sostanza non si manifesta tremolante. Nel caso di Brooke a svelare l’inganno ci pensa la sconosciuta nemmeno ventenne quasi sorellastra Tracy (Lola Kirke), promessa parente dopo le nozze annunciate tra il padre di una e la madre dell’altra. Tracy si affaccia alla vita in un campus universitario e con velleità da scrittrice, chiama Brooke e, abbagliata dal suo fascino trasgressivo, decide che ne racconterà la vita. Ma siccome la penna quando romanza non mente mai, i riferimenti puramente casuali alla realtà finiranno per offendere le certezze di Brooke, ri-formando la sua vita.
MAMistress America si pone in continuità con i due lavori precedenti, Frances Ha e Giovani si diventa, trovando una formula combinatoria che rende questo film, per motivi diversi, il loro opposto speculare. Brooke è una Frances che ha trovato stima e si è costruita un’immagine hipster che può trasformare la sopravvivenza in ambizione; ma è anche una giovane-ancora-per-poco che teme l’età adulta, spaventata da una visione di futuro mediocre. Tracy, che non può essere amica-amante-madre come era Sophie per Frances, osserva Brooke dal basso dei sui vent’anni, cercando un modello e poi sezionandolo impietosamente. La self-made-woman è fragile, irritabile, frustrata, sconta l’assenza di pragmatismo, che invece ha portato la sua ex-amica (calcolatrice) a sposare il suo ex-ragazzo (tutto soldi e concretezza) e a stabilirsi in una magnifica villa dove affogare nei vizi.
Tracy, con ingenua consapevolezza, trasforma l’idolo Brooke in una Miss-Stress americana, emblema del fallimento, sull’orlo della depressione, personaggio da romanzo post-alleniano, forse figlio di certi personaggi schizoidi alleniani. In questo Baumbach gli è affine, nel racconto del disorientamento dei suoi caratteri; prosegue la narrazione là dove Woody Allen l’ha lasciata per sopraggiunti limiti d’età (e i suoi ultimi film sono lì a dimostrarlo). La signorina Stress non è una copia di Annie Hall e nemmeno di Isaac Davis di Manhattan, ne è figlia. E dai genitori ha ereditato ben più dei tic nervosi.


Greta Gerwin, sempre all’altezza, è uno nessuno centomila, sfida il presente e teme la sconfitta, perché intorno a lei ogni ambiente sembra finto, costruito come una scenografia teatrale da cui si entra e si esce dopo aver recitato battute di un copione mediocre. Per questo Baumbach si prende la licenza di passare dal cinema al teatro (dell’assurdo) nella messa in scena, dimostrando questa volta di aver digerito la lezione della Nouvelle Vague senza ricorrere a citazioni palesi (a volte pacchiane), piuttosto per l’approccio libero alla materia del racconto.

Vera Mandusich

Mistress America

Regia: Noah Baumbach. Sceneggiatura: Greta Gerwig, Noah Baumbach. Fotografia: Sam Levy. Montaggio: Jennifer Lame. Interpreti: Greta Gerwig, Lola Kirke, Joel Garland, Michael Chernus. Origine: Usa, 2015. Durata: 86′.

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