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Nezouh – Il buco nel cielo

Una donna e una quattordicenne vagano in un labirinto di strade sconosciute, è la periferia di Damasco sfregiata da anni di conflitto, una città spettrale, più simile all’Aleppo devastata dai bombardamenti nello straziante For Sama, che alla perla del Medio Oriente in cui architetture d’epoca romana, basiliche bizantine, moschee e scintillanti minareti sono (erano) tracce di una cultura millenaria. La donna adulta è Hala, l’adolescente è la figlia Zeina. Dopo una vita in cui ha lasciato raramente le mura domestiche, e sempre accompagnata dal marito Motaz, adesso si sente persa tra strade polverose, calcinacci, voraggini, segni di un conflitto che non trova soluzioni. E’ la parte finale di Nezouh, fino a quel momento l’azione non si era spostata dai confini dell’abitazione di Motaz e Hala. Testardamente fermo nella difesa di una casa ridotta a groviera da un attacco annunciato, il capofamiglia si ostina in una difesa commovente di ciò che rimane del loro appartamento. È un’ostinazione disperata e decisa, ma che rischia di pagare a caro prezzo. Mentre le milizie armate occupano le strade, Motaz recupera acqua e viveri da altre abitazioni abbandonate, Hala ripulisce calcinacci e polvere dai pavimenti e dai mobili ancora integri, Zeina fa amicizia con un vicino, Halla, un coetaneo con la passione per la tecnologia. Tra i due nasce un’amicizia che sfiora l’amore. Una fune calata da un buco nel soffitto della camera di Zeina, permette alla ragazza di raggiungere Halla sul terrazzo dell’edificio. Quando l’arrivo dell’esercito prefigura nuovi drammatici combattimenti, madre e figlia decidono di lasciare Motaz per tentare la fuga.

L’opera seconda di Soudade Kaadan è un film che non racconta soltanto il dramma di chi vive sotto le bombe cercando una forma poetica che possa brillare di realismo magico, con sconfinamenti nel sogno, nell’immaginazione pura (di Zeina) che trasforma il cielo in acqua, le macerie in fondale marino, il buco in quinta teatrale su cui sono dipinte mappe stellari, codici segreti per mondi inaccessibili; Nezouh è un film che riflette sull’idea di spazio fisico e spazio mentale, sulle membrane che dividono o mettono in comunicazione le persone con altri spazi, intesi come luoghi fisici ma anche metafisici, terre interiori dove l’immaginazione produce visioni e alimenta la costruzione di un futuro possibile e alternativo alle macerie, comprensivo di affetti e relazioni libere da retaggi culturali. Si ha la sensazione che Kaadan ci racconti sì l’efferatezza della guerra in Siria, come fossimo nella periferia della storia di Sama, ma che ad ogni colpo d’artiglieria che frattura mattoni e cemento si apra la possibilità di un paradigma diverso che “chiami alle armi” le donne, rendendo Nezouh terribilmente attuale. Proprio nell’ultima parte del film, quando finalmente l’azione si sposta all’esterno, Hala dopo essersi persa nel suo quartiere, trovata la via, lascia un paio di eleganti scarpe rosse su un cumulo di calcinacci: un chiaro richiamo all’artista messicana Elina Chauvet, autrice nel 2009 di un’installazione diventata simbolo della denuncia degli abusi sulle donne e dei femminicidi.

Hala è il personaggio con cui la regista empatizza, sposandone il punto di vista in dialettica con Motaz, figlio devoto dell’Islam (osservato comunque con indulgenza), che da buon musulmano ha costruito casa, messo su famiglia, progettato la vita nella cura di un posto sicuro, sottovalutando forse gli orrori del conflitto che da tempo lacera la Siria. Quando Kaadan ci apre le porte della casa di Motaz e Hala, la distopia si è ormai divorata sogni, aspettative, progetti, la figlia più grande si è già perduta in una fuga disperata; ancora prima che una bomba squarci pareti e soffitti, padre, madre e figlia mostrano già i segni laceranti della guerra: sguardi da naufraghi, corpi al limite della resistenza. E, come un sopravvissuto, Motaz si ingegna per illuminare le notti buie con improbabili generatori di corrente, cerca rigagnoli d’acqua, cibo sepolto sotto le macerie. L’alternativa è forse ancora più spaventosa: diventare un rifugiato, accampato in un luogo privo di storia e prospettiva. Nemmeno quando si apre un buco nel soffitto e quel buco diventa una voragine aperta al calore bollente dell’estate o agli acquazzoni improvvisi che allagano le stanze, abbandonare casa può essere una soluzione.

La regista declina l’idea di sopravvivenza nelle istanze dei suoi protagonisti, e tanto più Motaz impone il suo punto di vista conservativo e in definitiva irrazionale, che nasconde (nemmeno tanto velatamente) la ferma difesa del patriarcato quale unica possibile struttura sociale, inappellabile, infallibile, per cui la tutela della Sua casa in quanto unico possibile luogo di sopravvivenza assume caratteri fanciulleschi, per non dire patologici; tanto più Hala cresce in statura prospettando una rivoluzionaria detronizzazione del capofamiglia, fino all’abbandono del tetto (bombardato) coniugale. La spinta drammatica è l’indecente proposta di matrimonio di un vicino che propone il figlio soldato come marito per la giovane Zeina, che nel frattempo ha torvato la sua via di fuga con l’aiuto dell’amico Halla, personaggio quasi magico, guardiano della soglia che separa realtà e immaginazione, a cui la regista affida un ruolo risolutivo nel percorso di emancipazione delle due donne, non senza concessioni narrative a volte forzate. Peccati perdonabili nell’economia di un racconto aggrappato alla trasfigurazione dell’orrore come via di fuga.

Alessandro Leone

Alessandro Leone

Nezouh – Il buco nel cielo

Regia e sceneggiatura: Soudade Kaadan. Fotografia: Burak Kanbir, Hélène Louvart. Montaggio: Soudade Kaadan, Nelly Quettier. Musiche: Rob Lane, Rob Manning. Interpreti: Nizar Alani, Kinda Alloush, Samir Al Masri, Hala Zein. Origine: Francia/GB/Siria/Qatar, 2022. Durata: 103’

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