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Quell’aria fresca tra le Twin Towers

Un uomo ha violato lo spazio aereo tra le Twin Towers!
Le Torri Gemelle sono state inaugurate da poco più di un anno, ma sono già sostanza di un sogno collettivo nella città più rappresentativa e iconica degli Stati Uniti d’America: Manhattan come cattedrale neogotica, il World Trade Center il suo presbiterio, le Twin Towers le sue torri campanarie per celebrare il culto della finanza come religione di stato. I 417 metri di altezza della Torre Nord, escludendo l’antenna per le telecomunicazioni, ne fanno in quel momento l’edificio più alto del mondo, nonché emblema ideologico di un paese che non teme le altezze, sta conquistando lo Spazio, e deve cancellare la vergogna del Watergate e il pantano del Vietnam.

7 agosto 1974, ore 7.15. Le strade del Lower Manhattan iniziano ad affollarsi. Per chi ha deciso di consumare la propria colazione all’aria aperta dalle parti del World Trade Center, quella non sarà una mattina come le altre. C’è un uomo che sta attraversando le torri, percorrendo una fune metallica tirata tra i due edifici. Ha la calzamaglia ma non è un supereroe dei fumetti. Quel pazzo si chiama Philippe Petit, è un funambolo francese, sconosciuto fino a quel momento alla stragrande maggioranza degli americani. Si era divertito tre anni prima a passeggiare tra altre due torri, meno imponenti ma con una storia secolare alle spalle, quelle della cattedrale di Notre-Dame de Paris.
Adesso è solo a metà strada tra Torre Sud e Torre Nord, l’aria dev’essere fresca lassù, probabilmente tira un vento non percepibile in basso, dove, sì, qualcuno si è fermato a guardare in alto, ma la maggior parte dei newyorkesi viaggia a tutta velocità verso le proprie occupazioni e di quello spettacolo verrà a conoscenza solo in seguito, e con il rimpianto di averlo solo sfiorato.
Per 45 minuti la distanza che intercorre tra le torri è percorsa lungo una direttrice impensabile, inimmaginabile, innaturale per una creatura che non sia un volatile. Philippe Petit non si accontenta di un solo attraversamento: in perfetto equilibrio con il suo lungo bilanciere, percorre con grazia e audacia otto volte quella distanza, sdraiandosi sulla fune come fosse sulla Luna e non sulla Terra, inginocchiandosi infine per salutare il suo pubblico con il riguardo dell’ospite in una casa signorile. Qualcuno scatta delle fotografie per fermare il momento irripetibile in cui un uomo ha costruito un ponte a più di 400 metri di altezza sul tetto d’America.

Petit aveva studiato per mesi la possibilità di tirare una fune tra i due edifici. Le Torri le aveva esplorate dall’interno e dall’esterno, addirittura noleggiando un elicottero e costruendo un plastico. Con uno sparuto gruppo di avventurieri aveva pianificato i dettagli dell’impresa, sceneggiando il suo action movie, un po’ thriller, un po’ commedia, un po’ fantasy, la storia di una magnifica ossessione, che prima o poi sarebbe diventata leggenda popolare e racconto cinematografico.
Le Twin Towers erano adesso, quella mattina d’agosto, comprimarie di un atto unico e sublime, testimoni della follia irriverente dell’uomo.

2008. James Marsh vince l’Oscar con il capolavoro Man on Wire, un documentario che ripercorre le fasi dell’impresa di Petit e compagni a seguito. Un film magnifico, impressionante, costruito con un crescendo di tensione drammatica che sfida lo spettatore nelle sue certezze, mettendolo nella condizione psicologica di dimenticare il lieto fine, tanta è la paura di precipitare. L’impianto è classico con l’eroe, la sfida, i comprimari, gli ostacoli, i ripensamenti, la posta in palio altissima (la vita stessa). La verità non è mai forzata, perché l’impresa di Petit è bigger than life, non ha bisogno di enfasi, di altro romanzo. Basta e avanza per dimenticarsi di essere spettatori di un documentario e vivere la sfida come puro godimento. Sappiamo che non ci sono filmati a sancire l’orgasmo finale, quando la figura in abito scuro è in equilibrio nel vuoto, a un passo falso dalla morte. Eppure le vertigini arrivano puntuali e ci si chiede se potrà mai farcela, perché quello è un eccesso di libertà che gli Dei avrebbero punito senz’altro in qualsiasi racconto mitologico.
E anche sette anni dopo, quando il genio di Zemeckis porta nuovamente Petit con il volto di Gordon-Levitt sulle Twin Towers, le oggettive e semisoggettive del funambolo prendono lo stomaco, sono terrificanti, e vorremmo non guardare e guardare al tempo stesso; scappare dalla sala e restare inchiodati in poltrona per approfittare di ciò che solo il cinema può fare: ricostruire ciò che non c’è mai stato, The Walk, la camminata a ventiquattro fotogrammi al secondo, la moltiplicazione dei punti di vista di ogni occhio irretito dal mistero di quell’uomo solo sul filo; ma anche ricostruire ciò che non c’è più, quello spazio, quel cielo tra le Torri, il punto di vista dall’alto della Cattedrale verso il basso, che è laico e religioso al tempo stesso. Eppure, se il film di Zemeckis non è più eccitante del documentario di Marsh, che sa evocare l’invisibile, il baratro, il vuoto come elemento del disastro, sicuramente The Walk arriva come una scossa elettrica nel processo di rielaborazione di un trauma collettivo, come una sfida allucinante tra esperienza cinematografica e memoria, allorché l’immagine epica di un uomo in estasi tra le Twin Towers si sovrappone, scioccante, all’oscenità di un’altra immagine inimmaginabile.
Era un’altra mattina routinaria di fine estate a New York, e tra le terrazze delle Twin Towers, a 400 metri di altezza, l’aria doveva essere sicuramente fresca.

Alessandro Leone

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