Il rapporto tra cinema e letteratura, per la profanità dello spettatore contemporaneo, si riduce spesso, ed esclusivamente, alla trasposizione più o meno fedele di un romanzo su grande schermo. In altre parole, uno scrittore dà alle stampe un suo libro, il libro riscuote un certo successo e finisce così adattato alle esigenze del cinematografo. Il che è senz’altro vero, ma alle volte succede il contrario, e cioè uno scrittore, ammaliato dalla settima arte, dal ritmo vertiginoso del suo montaggio, dall’affabulazione ipercinetica delle immagini, decide di scrivere un racconto sul cinema (ambientato al cinema, che ha un divo del cinema per protagonista, sul perché e sul percome si faccia un film…). Stupirà sapere, allora, che la lista dei letterati che hanno dedicato almeno una novella all’argomento non è affatto limitata a una manciata di nomi stringati, ma invero racchiude, trascina e amalgama decine di penne che, in momenti diversi del secolo, influenzate nei modi più strani e disparati, hanno lasciato ai posteri la loro personale testimonianza. Racconti di cinema, la raccolta curata da Emiliano Morreale e Mariapaola Pierini, entrambi professori universitari, ed edita da Einaudi, comprende ben trentatré racconti, distribuiti a ventaglio per un periodo trasversale tra muto e attualità, cinema antico e cinema odierno. È un calcolo al ribasso, il loro, perché ce ne sarebbero stati ben altri da inserire, esclusi poi per ragioni editoriali, di diritti, o di semplice spazio. Non si tratta di assoluti, però, o di attorcigliate riflessioni sul cinema, né di trattati di estetica o complesse disamine d’accademia. Gli scrittori qui riuniti pensano e descrivono il cinema non come qualcosa di dottrinario, ma intimistico, biografico, allucinatorio, sentimentale. Insomma parlano di cinema per come l’hanno vissuto e sentito loro, non per come vorrebbero insegnarlo o insegnare agli altri a viverlo e sentirlo.
C’è spazio per ogni situazione, in Racconti di cinema, da quelle più improbabili alle più peccaminose, dall’histoire d’amour tra porno attori sul viale delle rimembranze (Joanna Silvestri di Alberto Bolaño) a biografie liberamente interpretate (Dalia Nera & Rosa Bianca di Joyce Carol Oates, sui due grandi volti di Hollywood: quello luminoso di una ancora misconosciuta Marilyn, e quello oscuro della tristemente nota Elizabeth Short). Il cinema si sfrangia nei ricordi di questi scrittori, che rimontano il loro film personale, quello che non hanno mai realizzato, si prendono le licenze di cui necessitano, interpretano un fatto, un evento, un personaggio per farne qualcosa di diverso. C’è una novella su come la passione per una diva finisca per trasformarsi in un esempio di geniale feticismo (Tanto amore per Glenda di Julio Cortázar), ce n’è un altro in cui una coppia attempata si reca in sala per vedere un filmaccio porno di vecchia data: con grande sorpresa, la moglie ritrova il consorte, molto più giovane, intrappolato tra gli attori (Il film porno di Graham Greene). In un altro ancora abbiamo un magico non luogo dove sono accatastate, e disordinatamente custodite, tutte le scenografie delle grandi città a comporre una metropoli del sogno (Il campo di Ray Bradbury); in Lo zoom di sessanta minuti, James G. Ballard offre la cinepresa a un provetto peeping Tom che spia, ingrandendo a poco a poco la scena, il tradimento della moglie nella camera di fronte alla sua; in Nonoche al cinema, Irene Némirovsky racconta con grande modernità di stile la tresca amorosa tra una frivola borghese del primo Novecento e un bellimbusto conosciuto sulle poltrone. C’è persino spazio per il primo racconto su uno snuff movie, Un bel film di Guillame Apollinaire, risalente al 1907, dove degli impresari senza scrupoli rapiscono un distinto borghese che, per avere salva la vita, dovrà accoppare davanti all’obbiettivo della macchina da presa una coppia di poveri disgraziati.
Certo è il rimpianto, più che il voyeurismo, a tessere le sue sottili macchinazioni nell’impalcatura generale del volume, a insinuarsi come microscopico tarlo tra i fasti dei grandi attori, nell’epoca d’oro del cinema che fu, fino a minarne le fondamenta, fino a ricordarci che tutto ciò che è stato scritto, a conti fatti, appartiene al passato; a un momento cioè in cui si amava il cinema non tanto per le pellicole, ma per il fatto di rintanarsi nelle sue sale fumose, di condividere un’esperienza, di istituzionalizzare un rituale rendendolo popolare e collettivo. Forse il racconto più bello della raccolta è e resta Cinema Albero di Efraim Medina Reyes, colombiano, che ha per protagonista appunto una grande pianta sulla quale un intraprendente padrone ha affisso delle panchine per il pubblico: l’idea è quella di far accomodare gli spettatori che, pagando un prezzo pari alla metà di un biglietto cinematografico, potranno spiare, romanticamente sotto le stelle, il film proiettato dal confinante cinema all’aperto. Quando il gestore obbliga l’abusivo imprenditore a chiudere baracca, i suoi fedeli spettatori boicottano le proiezioni regolari lanciando improperi e fango addosso alle platee rispettose della legge. Il cinema, la nostalgia, la bellezza di un ricordo che cambia, si trasforma, si adatta all’età e al sentimento di chi osserva. È questo che fanno i film, d’altronde, si rivolgono al pubblico in modo diverso, così come il pubblico che li recepisce, li interpreta, li decifra secondo la propria sensibilità: acuta alle volte, fantasiosa alle altre, asciutta, minimale o barocca. Di sicuro mai noiosa. Alla noia e ai problemi ci pensa la vita di ogni giorno.
Marco Marchetti
Racconti di cinema
A cura di Emiliano Morreale e Mariapaola Pierini,
Einaudi 2014.
395 pagine, 22 €