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SPECIALE First Man – Il primo uomo

first-man-primoDopo la prematura scomparsa della secondogenita, l’aviatore Neil Armstrong (Ryan Gosling) entra nel programma Gemini, il cui scopo è sviluppare tecnologie capaci di portare l’uomo sulla Luna, possibilmente prima dei russi. Mentre la moglie Janet (Claire Foy) mette al mondo il secondo figlio maschio, Neil è sempre più impegnato a raggiungere il sogno che sembra condividere con l’intera confederazione americana. Un team di ingegneri, scienziati, aviatori, lavora sinergicamente ma non mancano i fallimenti: tra prove, collaudi, lanci nello spazio, muoiono diversi compagni di Neil. L’opinione pubblica si divide, passa dall’euforia dei primi anni 60 alla disillusione che nel ’68 sfocia in aperta contestazione, dove il governo è accusato di buttare via milioni di dollari in missioni inutili. In piena Guerra Fredda è però cruciale andare avanti. Nonostante Janet metta di fronte Neil alle sue responsabilità di padre e marito, l’astronauta, al comando della missione Apollo 11, si imbarca con Buzz Aldrin e Michael Collins per un viaggio pieno di incognite. Il 20 luglio 1969 Armstrong passa alla storia come il primo uomo ad aver messo piede su suolo lunare.

claire1962-1969. Sette anni per raccontare non tanto la storia dell’allunaggio ma la vicenda umana di Neil Armstrong, il First Man, il primo uomo a mettere piede su suolo lunare (non ce ne vogliano i complottisti). Dopo La La Land, Damien Chazelle torna a lavorare con Ryan Gosling, interprete ideale a vestire i panni dell’aviatore astronauta, uomo per nulla incline ai riflettori, di poche parole, dall’emotività trattenuta, anche in seguito al lutto che colpì la sua famiglia nel ’62: la morte per cancro della figlioletta Karen. Il film di Chazelle ne esplora la dimensione più profonda, privata, attingendo alla biografia autorizzata scritta da James Hansen e pubblicata nel 2005 (First Man: The Life of Neil A. Armstrong): la corsa allo spazio in piena Guerra Fredda, il percorso tortuoso fatto di errori, fallimenti, tragedie, l’altalenante consenso dell’opinione pubblica e l’esplosione della contestazione (l’America invischiata nella guerra in Vietnam), si intrecciano alle vicende personali di Armstrong: il rapporto con la moglie, quello con i due figli che lo vorrebbero più presente, le poche selezionate amicizie con i compagni di viaggio, soprattutto l’elaborazione impossibile del lutto per la perdita di Karen, che ad un certo punto pare spingere verso la missione Gemini, quasi che conquistare la Luna potesse risarcire della perdita. Luna come sogno, Luna come ossessione, Luna come ultima frontiera per dare un senso alla vita. Chazelle non eccede in effetti speciali, rinunciando alla spettacolarità fine a se stessa; tiene insieme il racconto senza mai sprofondare nel melodramma o trasformare il conto alla rovescia in un thriller, attento anche a non scivolare nella retorica del film politico.


La colonna di suoni e rumori (non la colonna musicale composta da Justin Hurwitz, che a tratti fa da eco alle sonorità già sentite in La La Land), durante i viaggi che bucano l’atmosfera terrestre, moltiplica la suggestione dell’impresa, perché il regista ci ingabbia nell’abitacolo con i suoi uomini e l’esperienza diventa multisensoriale: un aggrovigliarsi di distorsioni acustiche, saette metalliche, combustioni esplosive. Il film si trasforma in quei frangenti in un mistero astratto, quasi come un’opera d’avanguardia di Man Ray. I riflessi di luci inspiegabili si dilatano sulle superfici riflettenti dei caschi e delle visiere e per una volta il percorso nello spazio non è una moltitudine di codici cifrati ma il tremolio della psiche.

Vera Mandusich

Il sogno americano

Non aspettatevi di vedere Armstrong e Aldrin infilare una bandiera americana nell’arido suolo lunare. I tempi sono cambiati, la retorica anche. Non è più tempo di sbandierare conquiste, nessuno se la berrebbe la favola dell’uomo alla scoperta del Nuovo Mondo. Non si tratta di mettere in discussione la veridicità dello sbarco sulla Luna. La questione 4-firstmanormai è priva di interesse per chi scrive: che l’Apollo 11 ci sia davvero arrivato sulla Luna, o che il 20 luglio del ’69 in un set segretissimo Stanley Kubrick stesse mettendo in scena il suo più grande capolavoro, poco cambia a distanza di quasi 50 anni. La corsa allo spazio è terminata con la fine delle tensioni tra i blocchi, gli stanziamenti economici ridimensionati, soprattutto dopo la tragedia dello Space Shuttle Challenger nel 1986. La Luna ha smesso da tempo di essere interessante, dalle stazioni orbitanti si è passati all’esplorazione dello spazio profondo, poi ai prelievi marziani, alle missioni con agenzie spaziali europee e cinesi. Il film di Chazelle è il canto di un’America che non esiste più, e non perché non esistano più i sogni e le promesse mirabolanti, ma perché il popolo delle occupazioni epiche è stato disarcionato dalla sella dei propri cavalli. L’epopea del west e la corsa verso la Luna avevano in comune pulsioni, desideri, frenesie; la propensione all’esplorazione curiosa dell’ignoto ha avuto come propulsore la caccia vorace a terre da privatizzare, la prevaricazione su popoli da confinare, la rivalità con antagonisti lontani ideologicamente. Il sogno americano che si sviluppa parallelamente alla macchina del cinema hollywoodiana è una simpatica menzogna che ha costruito un sistema di valori di superficie ma che, di fatto, sono spesso stati contraddetti dalla storia della Confederazione, tanto all’interno quanto nelle relazioni con l’esterno. La macchina dei sogni ha funzionato perché le conquiste si coniugavano con la necessità di preservare gli americani e l’American Way of Life, e tutto questo bendidio non poteva non avere nemici giurati. Ciò che manca oggi è proprio l’identificazione di un nemico giurato, fatti fuori Saddam e Bin Laden, la geografia del nemico si è dilatata enormemente, tanto che il sogno è riconquistare casa propria (si vedano gli ultimi film di Eastwood e Bigelow). La Luna a ripensarci è una cosmicomica calviniana, come pure la balorda corsa allo spazio tra russi e americani, che ha infiammato due decenni.
Guardare Gosling che fa Armstrong diverte e quasi commuove, nemmeno per l’interpretazione dell’attore, che fa ciò che sa primouomofare meglio (comprimere l’emozione), quanto per quell’alone nostalgico con cui oggi siamo costretti a guardare gli anni 50 e 60, quando ancora la propaganda non si era svelata come bugiarda impostura, e in Europa arrivavano da oltreoceano ondate di modernità fresca con un carico di magnifiche idee per guardare al futuro con occhi fanciulleschi. E’ interessante che Chazelle elida il momento in cui la bandiera trafigge il cretto lunare, perché ancora oggi porta con sé l’insolenza della provocazione dell’uomo americano che reclama una proprietà illegittima, e non dell’uomo terrestre che ha appena superato un limite impossibile (visione di un regista poco più che trentenne). L’Armstrong di Chazelle e di Josh Singer, sceneggiatore sopraffino che di storia americana e di amnesie collettive ne capisce (The Post, Il caso Spotlight) semmai sulla luna va a cercare il senno perduto dopo la morte della figlia piccola e che ha azzerato la sua affettività. E che sia realmente Luna o il rovescio del set di 2001, piace pensare che all’ombra di un cratere, nascosto ai riflettori del mondo, Armstrong abbia conversato con Astolfo.

Alessandro Leone

First Man – Il primo uomo

Regia: Damien Chazelle. Sceneggiatura: Josh Singer. Fotografia: Linus Sandgren. Montaggio: Tom Cross. Musiche: Justin Hurwitz. Interpreti: Ryan Gosling, Claire Foy, Jon Bernthal, Pablo Schreiber, Jason Clarke, Kyle Chandler, Shea Whigham, Patrick Fugit, Corey Stoll, Lukas Haas, Cory Michael Smith. Origine: Usa, 2018. Durata: 138′.

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