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The Birth of a Nation – Il risveglio di un popolo

birth of 1Ah, il senso di colpa dell’uomo bianco. O meglio, dell’occidentale, visto che il regista di The Birth of a Nation – Il risveglio di un popolo è un afroamericano di nome Nate Parker, attore e produttore qui al suo esordio dietro la macchina da presa. Se è vero che il cinema, come l’arte, proviene dal profondo, e dà corpo a voci e pensieri che sovente appartengono più all’inconscio che alla ragione, allora anche Parker ha razionalmente girato un film sulla schiavitù dei negri, proprio come il britannico Steve McQueen (nero pure lui) per sottendere inconsapevolmente qualcos’altro. Sì, perché la storia di questo The Birth… rientra certo nel melodramma di fine artigianato, con la ricercatezza dei costumi, le scenografie, l’amore certosino per la ricostruzione storica di un periodo tanto tragico quanto importante, eppure è il contorno, ciò che sta a lato delle cose, a destare la nostra attenzione un po’ sospetta. Cioè l’idea, tra l’altro prelevata papalebirth of 2 papale dalla Storia con la maiuscola, di una rivolta di negri della Virginia, che nell’agosto del 1831 insorsero ammazzando oltre cinquanta bianchi, e finendo chi impiccato, chi fucilato, chi accoppato in qualche modo barocco. Il capo dei rivoltosi era un certo Nat Turner (interpretato dallo stesso regista), che aveva imparato a leggere e scrivere grazie all’intercessione di una signora bianca del sud, salvo poi essere spedito a lavorare nei campi e maturare una vocazione profonda e radicale per le Sacre Scritture. L’uomo era diventato un abilissimo predicatore, un fanatico, dapprima ingaggiato dal padrone per sedare il malcontento dei suoi conterranei con la promessa di un paradiso trascendente, imperscrutabile ma pieno di gioie ultraterrene; dopo trasformatosi in un sedizioso sobillatore capace di fomentare la rivolta tra i piantatori. Il suo sogno? Guidare un esercito di negri come una moderna Giovanna d’Arco e sterminare tutti i bianchi.
birth of 3Strani gli dei. E più di tutti l’unico Dio Geova, signore misterioso in cui tutti credono senza nemmeno averlo mai visto. Alcuni lo chiamano Allah, altri Yhwh, altri ancora lo identificano con Gesù, dando indirettamente origine a dispute teologiche circa la sua natura umana e divina, monoteista e dualista al contempo. Che sia uno e trino o che non lo sia, che preferisca il porgi l’altra guancia alla guerra santa, certo è che il Signore Geova sta sempre dalla parte di tutti, come la pioggia evangelica che bagna della stessa acqua i retti e gli iniqui. Ed è questa entità lucreziana, che altrimenti vivrebbe placida nei suoi intermundia, che invocano bianchi e neri nel film di Parker: i padroni per ingraziarsela del cibo ricevuto, delle distese di soffice cotone, del sole del sud e dei suoi cieli tersi; gli schiavi per trovare nella fede il conforto che altrimenti gli sarebbe sottratto insieme alla dignità, quindi per incitare gli oppressi alla rivolta. Il risultato è sempre il medesimo: si uccideva in suo nome, e per le stesse ragioni, nell’America del diciannovesimo secolo come nell’Occidente di oggi.
Ma l’aspetto molto interessante del film è forse un altro, e cioè, dicevamo in apertura di articolo, il senso di colpa del bianco. Il rimorso profondo, il dolore, la percezione fisiologica di aver privato l’altro del diritto alla libertà prima, alla vita poi. Di aver costruito la propria contemporaneità su ruberie, furti e saccheggi. Non è terzomondismo, tanto meno quello di Herbert Marcuse o del nostrano Carlo Petrini, ma proprio rincrescimento che, seguendo i tortuosi budelli della psicoanalisi, costruisce ex novo il mito dell’oppresso in opposizione all’opulenza debordante della società occidentale. Il negro è buono, il bianco è cattivo. La crudeltà del negro, del selvaggio, del cavernicolo è giustificabile in quanto conseguenza delle privazioni a cui il bianco l’ha costretto. Questa premessa, che ha il duplice merito di trasformare il film di Parker in un’elegia dell’Occidente (il titolo è d’altronde eloquente) e in un peana all’islam, ci ricorda un film molto simile, ma europeissimo, come White God (2014) di Kornel Mundruczo, che la critica ha sbrigativamente relegato al limbo della pellicola didascalica sul confronto oppressi e oppressori. Quel film lì non parlava di negri, ma di cani, brutti, pelosi e aggressivi che attaccavano gli umani, tutti bianchi e presumibilmente cristiani, massacrandoli con feroce abnegazione. In fin dei conti se lo meritavano, i padroni, tranne nella scena finale, quando il film ti diceva la verità senza volerla dire, quasi di nascosto e con un retrogusto di vergogna: i bianchi “buoni”, cioè di sinistra, si chinavano di fronte a un’orda di cani che li risparmiava dalla carneficina. Anzi, più che chinarsi si inchinavano, si genuflettevano come verso La Mecca. Islam è sottomissione persino nell’etimologia.


Ma la colpa era dell’uomo bianco, del padrone, chi invocava il dio sbagliato, o forse che lo invocava male. The Birth of a Nation è un lavoro involontariamente conservatore, di destra, anche se le sue premesse spingono in direzioni opposte. Free State of Jones resta forse il film più bello tra i figli minori di 12 anni schiavo, ma questo di Nate Parker risulta il più interessante, il più attuale, il più vivace. L’uomo bianco potrebbe trovarvi motivo di riflessione profonda, sempre che riesca a sopravvivere ai suoi troppi rimorsi.

Marco Marchetti

The Birth of a Nation – Il risveglio di un popolo

Regia: Nate Parker. Soggetto: Jean McGianni Celestin. Sceneggiatura: Nate Parker. Fotografia: Elliot Davis. Montaggio: Steven Rosenblum. Musica: Henry Jackman. Interpreti: Nate Parker, Armie Hammer, Marc Boone Junior, Aja Naomi King. Origine: USA, 2016. Durata: 119′.

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