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Il prigioniero coreano (le due Coree di Kim)

prigioniero-coreanoIl pescatore Nam Chul-woo abita con moglie e figlia in un villaggio nord-coreano a ridosso del 38° parallelo. Ogni mattina getta le sue reti a pochi metri dal confine acquatico che separa le due Coree. Abituato alle correnti che spesso tirano verso sud, Nam viene tradito da una rete che si aggroviglia all’elica del motore della barca. Per salvare l’imbarcazione, vitale per sé e la sua famiglia, non può evitare che la stessa barca finisca in acque sud-coreane. Arrestato dalle autorità “nemiche”, accusato di essere una spia, il pescatore è torturato e spinto all’abiura. Il pensiero della sua famiglia ha però il sopravvento. Il conseguente rientro in patria non sarà privo di sorprese.

“La Corea del Nord non è soltanto la dinastia dei Kim. La gente viene prima”, parole di Kim Ki-duk, quasi una log-line del film. Il prigioniero coreano è il testo più esplicitamente politico di Kim Ki-duk, arrivato al ventiduesimo lungometraggio coreanoin venti anni, anzi al ventitreesimo se consideriamo l’ancora inedito Human, Space, Time and Human presentato a Berlino. Non mancano certo i titoli (forse meno conosciuti) che sottintendono una critica alla politica del suo paese, Indirizzo sconosciuto e The Coast Guard, ad esempio: il primo che misura la quantità di “scorie” accumulate dalla presenza di una base NATO nei pressi di una cittadina popolata dai figli e dai fantasmi della guerra di Corea; il secondo, a rivederlo adesso, sembra un controcampo de Il prigioniero coreano, una storia senza sconti che racconta gli effetti devastanti sulla psiche di una guardia costiera, che ha sparato su un presunto nemico del nord, e sulla fidanzata della vittima.
Il regista adesso cambia prospettiva, azzardando un parallelismo tra nord e sud che in patria non ha fatto contento nessuno (ma questa non è una novità), attualissimo proprio adesso, dopo il disgelo tutto da verificare seguito alle Olimpiadi invernali. Non certo perché a questa morbidezza di rapporti si creda poco, ma perché il film ci mostra delle affinità che rendono manifesta una parentela indiscutibile, e surreale la persistenza fintamente dottrinale di una cortina anacronistica: il dramma che si consuma da settant’anni – il film è chiaro – è uno scontro prigioniero_coreanofratricida di cui la gente comune ha quasi perso il senso. Kim (il regista del sud) non si scaglia contro Kim (il despota del nord), ma guarda alle similitudini tra i due paesi demonizzando tanto la dittatura comunista, quanto la violenza ideologica che chiude lo sguardo a sud. La parabola del buon pescatore, finito suo malgrado in una rete di diffidenze e sospetti da cui è impossibile uscire indenni, si fa spettro angosciante di un popolo che chiede semplicemente di poter partecipare a processi storici che altrove hanno decretato la fine dei blocchi, ma che invece rimane strumento politico. Nam attraversa nel suo calvario le contraddizioni della democrazia liberale sudcoreana come le imposture di facciata dei burattini di Kim Jong-un, e improvvisamente diventa protagonista della storia contemporanea che fino a quel momento lo aveva visto parte di uno sfondo senza colore.
Kim Ki-duk rinuncia all’approccio metafisico o poetico che aveva caratterizzato molto del suo cinema, fatto di simbologie e metafore, a favore di un realismo che azzera quasi le sovrainterpretazioni, tanto è scoperto il messaggio (rischiando spesso la didascalia). C’è solo da guardare scaricando preconcetti e bagagli culturali, aprire gli occhi (cosa che si rifiuta di fare Nam tra le strade di Seul), perché tutto è più semplice di quanto sembri: è la solita storia di idiozia umana che si ripete con nauseante puntualità e che non ha più nulla di sorprendente. Ovvio che in questo film ci sia meno spazio per invenzioni poetiche, quadri polisemici e misteriosi.


Se la Corea di Kim è comunque da sempre un luogo di violente trappole, alienante fabbrica di mostruosità che produce sconnessione tra individuo e collettivo, solitudini invincibili, altre volte ribellioni senza interlocutori, per due terzi della durata del film il regista mette allo specchio l’ipocrisia liberale del sud, smascherandone le paure recondite che ne fanno una democrazia tanto pericolosa quanto i cappi tirannici intorno alle gole di chi vive a nord. Il tema a lui caro del doppio, della scissione della personalità, adesso si applica alla perfezione alla Corea. Quella del sud, si intende.

Alessandro Leone

Il prigioniero coreano

Sceneggiatura, regia e fotografia: Kim Ki-duk. Montaggio: Min-sun Park. Interpreti: Ryoo Seung-Bum, Lee Won-geun, Kim Young-min, Guyhwa Choi. Origine: Corea del Sud, 2016. Durata: 114′.

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